Il fronte delle proteste
Il giornalismo americano, il presidente contro i fake media e le battaglie che diventano personali
New York. Giornalisti aggrediti nonostante fossero lì a fare il loro lavoro, con le credenziali ben in vista. Presi a manganellate, caricati, colpiti con proiettili di gomma e con lo spray urticante. Alcuni anche arrestati, come è successo al reporter della Cnn e alla sua troupe, ammanettati in diretta. Quello che non ci si aspettava e che invece le proteste contro la morte di George Floyd hanno messo in evidenza è quanto negli Stati Uniti – sempre portati a esempio di eccellenza della stampa e della libertà con cui si muove – i giornalisti non stiano passando un bel momento, attaccati dalla polizia, ma anche dai manifestanti. Dal 29 maggio l’US Press Freedom Tracker, un sito indipendente di cui la Committee to Protect Journalist CPJ è partner fondatore, ha riportato almeno 125 violazioni della libertà di stampa, tra cui 20 arresti. Oltre al giornalista di colore della Cnn Omar Jimenez arrestato a Minneapolis, a Las Vegas, in Nevada, sono stati arrestati due fotoreporter, Ellen Schmidt, che lavora per il Las Vegas Review-Journal, e il libero professionista Bridget Bennett. L’accusa: reato di “mancata dispersione”. La notte seguente, il giornalista di Huffington Post Christopher Mathias è stato arrestato dalla polizia mentre raccontava le proteste a Brooklyn, New York. Una giornalista della Minnesota Public Radio ha raccontato a CPJ di avere avuto una pistola puntata alla testa dalla polizia, che si è rifiutata di abbassare le armi anche dopo che lei si era identificata come un membro della stampa. Sempre la notte del 29 maggio la fotoreporter Linda Tirado è stata colpita all’occhio sinistro da un proiettile di gomma e, secondo i suoi post su Twitter, è stata accecata in modo permanente.
“Siamo inorriditi dal continuo uso di azioni aspre e talvolta violente della polizia contro i giornalisti che fanno il loro lavoro. Queste sono violazioni dirette della libertà di stampa, un valore costituzionale fondamentale degli Stati Uniti”, ha dichiarato il direttore del programma CPJ Carlos Martinez de la Serna. Anche la folla però ci ha messo del suo, non solo la polizia. Una squadra di Fox News che copriva le proteste a Lafayette Park a Washington è stata molestata e inseguita dai manifestanti. A Phoenix, in Arizona, la giornalista della Cbs 5 Briana Whitney, è stata aggredita mentre era in diretta da un uomo che urlava oscenità. Il gruppo per la libertà di stampa Reporter senza frontiere ha classificato gli Stati Uniti al 48° posto nel mondo nel suo indice del 2019, in calo di tre posizioni a seguito del crescente abuso. “Mai prima d’ora i giornalisti statunitensi sono stati sottoposti a così tante minacce di morte o si sono rivolti così spesso a società di sicurezza private per protezione”, afferma il rapporto. “Penso sia innegabile che la retorica di Trump sui nemici del popolo stia giocando un ruolo”, dice al Foglio Kyle Pope, editor e publisher della Columbia Journalism Review. “Qui non si tratta, come in passato, di giornalisti vittime di fuoco incrociato, persone che si sono trovate nel momento sbagliato nel posto sbagliato, qui abbiamo casi di membri della stampa presi coscientemente di mira”.
La preoccupazione per la retorica del presidente non è nuova. Sono tre anni che Trump attacca la stampa dicendo che i giornalisti sono non americani, che sono malvagi, che sono i nemici: a assorbire non è solo la base dei suoi sostenitori, ma è qualcosa che diventa parte della cultura generale. “Quel tipo di linguaggio è pericoloso e ha conseguenze”, continua Pope. Soprattutto per i giornalisti di colore. “Stiamo lavorando, riportiamo storie, ma siamo anche coinvolti personalmente e questo rende tutto più complicato perché la sfera giornalistica e quella personale si incrociano”, dice Dorothy Tucker, presidentessa della National Association of Black Journalist. Difficile quindi mantenere l’imparzialità. Per Pope non è però detto che sia un male: “La migliore analogia è con la stagione dei diritti civili, negli anni Sessanta, quando le organizzazioni giornalistiche si schierarono a favore del cambiamento e contro la segregazione e soprattutto al sud diventarono target della controprotesta. Eppure, oggi la storia gli sorride. Credo che oggi stia succedendo qualcosa di simile: non credo si possa affermare che entrambi li schieramenti suprematisti bianchi e anti razzisti si equivalgano e come giornalista devi dirlo, non puoi tacerlo. Come non si può tacere del razzismo sistemico della società americana. O delle violenze della polizia. Se guardiamo indietro quelle che oggi sono considerate epoche d’oro del giornalismo – il Watergate e l’opposizione a Nixon, la guerra del Vietnam, la battaglia per i diritti civili – sono stati, come ora, momenti in cui si diceva che i giornalisti si stavano spingendo oltre, che stavano diventando sostenitori e non reporter”. Il tema c’è. È notizia di queste ore che James Bennett, editore della sezione opinioni del New York Times, si è dimesso. La colpa è stata pubblicare un articolo a firma Tom Cotton in cui il senatore trumpiano incitava l’esercito a intervenire sui manifestanti. Il giorno dopo sul Twitter di gran parte dei giornalisti era comparsa questa frase: “Pubblicare questo articolo mette in pericolo gli afroamericani del New York Times”.