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Vi ricordate le lettere d'amore tra Trump e Kim? Ecco, sono carta straccia

Giulia Pompili

Pyongyang vuole di nuovo alzare la tensione, e questa volta l’America non può fare più niente per placare Kim se non offrirgli esattamente quello che vuole, cioè l’allentamento delle sanzioni economiche

Roma. Ieri mattina la Corea del nord non ha risposto alla quotidiana telefonata del Sud. Sembra un bisticcio tra innamorati, ma è il primo segnale di un collasso delle relazioni, e un tentativo infantile, tipico del regime di Pyongyang, di procedere con la strategia delle provocazioni e del boicottaggio. Il liason office è un luogo molto importante, e funziona più o meno come un territorio franco di negoziazioni: è stato istituito nel 2018 nella zona industriale di Kaesong (al confine tra le due Coree ma in territorio nordcoreano) dopo il primo incontro tra il leader nordcoreano Kim Jong Un e il democratico presidente sudcoreano Moon Jae-in. Da allora, ogni giorno, i funzionari delle due parti si sentono al telefono due volte al giorno, la mattina e il pomeriggio. La telefonata di ieri mattina è saltata, ma non quella del pomeriggio. Potrebbe essere un dettaglio insignificante, ma unito agli eventi avvenuti negli ultimi giorni è un campanello d’allarme: Pyongyang vuole di nuovo alzare la tensione, e questa volta l’America non può fare più niente per placare Kim se non offrirgli esattamente quello che vuole, cioè l’allentamento delle sanzioni economiche. Gli unici ad avere un canale di comunicazione con il Nord al momento sono i sudcoreani. Ma a forza di concessioni da parte di Moon – da sempre determinato a compiere il grande cambiamento tra Seul e Pyongyang – i nordcoreani se ne stanno approfittando: lo scorso fine settimana è stato vietato per la prima volta anche il lancio di sacchi di riso e bibbie da parte degli attivisti sul confine, dopo che la sorella di Kim, Kim Yo Jong, ha minacciato di chiudere definitivamente il liason office. In più l’Amministrazione Moon è sotto attacco dell’opposizione conservatrice, che è stufa di concessioni a senso unico.

 

L’ultima volta che il presidente americano Donal Trump ha parlato di Corea del nord – cioè di quello che avrebbe dovuto essere il più grande successo della sua politica estera – è stato il 2 maggio scorso. Kim era riapparso all’inaugurazione di una fabbrica di fertilizzanti dopo settimane di assenza dai media, e molti lo avevano creduto morto. In quell’occasione, Trump era diventato anche il primo presidente americano in carica a diffondere immagini di propaganda nordcoreana: su Twitter aveva pubblicato le foto della fabbrica di fertilizzanti – particolarmente controversa perché secondo vari studi potrebbe essere usata per l’arricchimento dell’uranio – e aveva scritto: “Sono felice che sia tornato e che stia bene!”. Un anno fa Trump aveva improvvisato un incontro con Kim sul trentottesimo parallelo, e aveva perfino fatto un passetto verso il Nord, diventando il primo presidente americano in carica a essere entrato su territorio nordcoreano. Prima di quell’incontro ce n’erano stati altri due: il primo, a Singapore, più che altro cerimoniale; il secondo, a Hanoi, un fallimento completo.

 

A un anno di distanza dall’inaugurazione di questo nuovo corso nei rapporti tra America, Corea del nord e resto del mondo, in realtà la politica dell’Amministrazione Trump coincide sempre di più con quella di Barack Obama con Pyongyang: pazienza strategica. O meglio: ignorare il problema e mantenere uno status quo funzionale. In un libro appena uscito, “Becoming Kim Jong Un” (Penguin Random House) Jung H. Pak, ex funzionaria della Cia per le questioni nordcoreane, conferma questo nuovo atteggiamento della Casa Bianca e scrive che Trump e Kim non sono poi così diversi: entrambi l’anno scorso avevano bisogno di visibilità, “entrambi dovevano dimostrare qualcosa. Ed entrambi sono molto permalosi”. Secondo Pak, nella politica con la Corea del nord “non ci sono proiettili d’argento”, ma qualcosa si può fare: contare sul coordinamento internazionale, ed essere disposti a occuparsi “del gruppo direttamente interessato ma anche il più trascurato: i cittadini nordcoreani”. E quindi, secondo Pak, ricostruire la rete di informatori, non solo per raccogliere più informazioni dentro la Corea del nord, ma anche per diffondere e dare accesso alle informazioni ai nordcoreani. “Non è una questione di se, ma di quando Kim Jong Un tornerà alle azioni provocatorie”, scrive Pak.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.