Il giornalista attivista
Oltre ai fatti e oltre le opinioni ci sono i custodi della “verità”. Così le bolle di sdegno mandano in tilt l’informazione
Milano. Cosa dovrebbe essere oggi un giornalista, “un attivista, uno stenografo”? La domanda è sbagliata, risponde Margaret Sullivan del Washington Post entrando nel dibattito sulla polarizzazione dell’informazione, sulla utopia di riportare “fatti disadorni” e sull’occhio del reporter, inalienabile, assieme alle sue idee e convinzioni. La risposta della Sullivan è: ogni giornalista e ogni giornale fa una scelta, sceglie cosa raccontare, cosa sottolineare, cosa far emergere. L’obiettivo è “fare scelte migliori, più sagge”. Ma chi stabilisce i criteri di saggezza? Molti giornalisti in America hanno deciso di stabilirli per conto loro, trasformando le redazioni e il ruolo del reporter, soprattutto su questioni sociali rilevanti. Il primo è stato Wesley Lowery, talentuoso e giovane giornalista del Washington Post, e tutto è cominciato a Ferguson, in Missouri, nel 2014, quando fu ucciso un ragazzo nero dalla polizia.
Oggi il dibattito è incandescente perché sono stati arrestati dei giornalisti nelle proteste e perché sono scoppiate rivolte nelle redazioni, con successivi regolamenti di conti. Il capo delle pagine delle opinioni del New York Times, James Bennet, si è dimesso in seguito alle polemiche per la pubblicazione di un articolo controverso.
Era il commento del senatore repubblicano Tom Cotton intitolato “Mandate le truppe”. Il direttore del Philadelphia Inquirer, Stan Wischnowski, si è dimesso in seguito alle polemiche per un articolo intitolato “Buildings Matter, too”, che è suonato come un paragone tra i palazzi e le vite dei neri. Alla Pittsburgh Post-Gazette è in corso una rivolta contro la direttrice perché a due giornalisti afroamericani non è stato dato il permesso di occuparsi delle proteste a causa di “un apparente pregiudizio”. La “cancel culture” sta uccidendo il giornalismo, ha scritto il Wall Street Journal denunciando “la marcia” di questa cultura dello sdegno e della suscettibilità nelle istituzioni culturali d’America, “un grave danno per la democrazia”. Va detto che nel quotidiano del gruppo Murdoch il pluralismo delle opinioni non si porta molto, e quindi internamente c’è poco di cui sdegnarsi.
Ben Smith, ex direttore di BuzzFeed ora commentatore del New York Times, ha raccontato la storia di Wesley Lowery, che ha lasciato il Washington Post all’inizio dell’anno, e che è diventato famoso nel 2014 durante le proteste a Ferguson, dopo l’uccisione di Michael Brown, un nero di 18 anni, da parte della polizia. Lowery, che allora aveva 24 anni, si fece notare la mattina del 14 agosto del 2014, la notte dopo essere stato arrestato, rispondendo furioso in diretta tv a chi gli diceva dallo studio che è sempre meglio obbedire agli ordini della polizia. Dovreste venire qui e provare voi, disse Lowery, “con i lacrimogeni, i proiettili di gomma, mentre le madri, le figlie piangono, e i ragazzi anche piangono perché devono correre e salvarsi” dalle violenze della polizia. Il tono furioso e sdegnato era lo stesso che Lowery usava su Twitter e che molti altri reporter cominciarono a utilizzare assieme a lui, contro le logiche antiche delle redazioni e dei direttori, contro anche le richieste di usare toni non troppo accesi. Oggi Lowery dice a Ben Smith: “Il valore primario” delle organizzazioni che fanno informazione “deve essere la verità, non la percezione di obiettività”. Sono i giornalisti attivisti i custodi di questa verità.
Lowery, che in questi anni ha contribuito a pubblicare un enorme racconto e resoconto della polizia americana che ha vinto il Pulitzer nel 2016, ha lasciato il Washington Post a gennaio perdendo lo scontro con il direttore, Martin Baron, che vuole molto rigore da parte dei giornalisti sui social. Baron ha scritto un memo in cui spiegava perché Lowery violava la policy del quotidiano sui social media e “danneggia la nostra integrità giornalistica”. Lowery ha risposto con un memo in cui difendeva il proprio attivismo, il “servizio per la coscienza non soltanto di questa pubblicazione ma di tutta l’industria” dell’informazione. A gennaio Lowery ha lasciato il Washington Post per un progetto sulla nuova piattaforma Quibi: non fa mistero dello scontro con Baron, ma resta comunque, nel racconto di Ben Smith, il prototipo del giornalista attivista che ora sta trasformando del tutto le redazioni americane. A questo cambiamento si possono aggiungere tre considerazioni. La prima: come ha detto Barack Obama denunciando la “cancel culture” e “i test di purezza”, un tweet sdegnato non è attivismo. La seconda: la sostituta di Bennet al New York Times, Katie Kingsbury, ha chiesto che le venga segnalato qualsiasi titolo, commento sui social, foto sulle pagine delle opinioni che suscita “anche la più piccola esitazione”. Si accorgerà che così il giornalismo diventa impossibile. La terza: i media di destra, che hanno eliminato negli anni, e soprattutto con Trump, le voci dissonanti, contribuendo a loro volta a costruire quelle bolle di intolleranza che fanno da carburante alla “cancel culture”, ogni tanto devono cedere al confronto. E’ successo a Fox News tre giorni fa: si è dovuta scusare per un grafico che metteva in correlazione le buone performance della Borsa con le morti di George Floyd, di Michael Brown e del reverendo Martin Luther King.