Conoscere il Dragone
Una nuova iniziativa internazionale con dentro anche l’Italia forse servirà a evitare altri errori
Roma. La scorsa settimana è stata lanciata una nuova “coalizione”, o per meglio dire un gruppo di studio, che ha come obiettivo quello di elaborare risposte adeguate alle “sfide lanciate dall’ascesa della Cina” a livello internazionale. Anima e sponsor dell’Inter-Parliamentary Alliance on China (Ipac) sono il senatore repubblicano americano Marco Rubio e il senatore democratico Robert Menendez. Già da questa trasversalità nell’impegno si intuisce una nuova fase nel dibattito sulla Cina, che sta crescendo per profondità e strategia parallelamente alla retorica un po’ populista sulla “nuova Guerra fredda”. I parlamentari saranno aiutati, nello studio di queste “sfide cinesi”, da un team di consulenti notevole: sinologi, economisti, avvocati per i diritti umani, esperti di sorveglianza e di minoranze etniche e religiose. All’interno dell’Ipac ci sono membri dei Parlamenti di Australia, Giappone, Canada, ma anche Norvegia, Svezia, Germania, Regno Unito, Olanda, Lituania, Repubblica Ceca. L’altro ieri è stato annunciato l’ingresso nella piattaforma anche di sei parlamentari italiani: il senatore di Forza Italia Lucio Malan e il senatore del Partito democratico Roberto Rampi sono dentro come copresidenti, ma ci saranno anche Enrico Borghi (anche lui del Pd), Andrea Delmastro Delle Vedove (di Fratelli d’Italia), Paolo Formentini (della Lega) e Roberto Giachetti (di Italia Viva). A mancare, naturalmente, il partito più filocinese che c’è in Italia, il Movimento cinque stelle.
La missione dell’Ipac, secondo quanto si legge sul sito, è quella di allargare la collaborazione tra parlamentari per “monitorare sviluppi rilevanti, assistere i legislatori nella costruzione di appropriate e coordinate risposte, elaborare un approccio proattivo e strategico sulle questioni relative alla Repubblica popolare cinese”. Non si tratta, quindi, di un fronte anti-Cina, ma di un sistema di studio delle azioni cinesi, che aiuti al coordinamento internazionale. “Il motivo per cui ho aderito è proprio questo”, dice al Foglio Rampi, che da tempo si occupa di temi cinesi, e soprattutto di quelli più scomodi per Pechino: Tibet, Xinjiang, Hong Kong. “Bisogna alzare il livello del dibattito. Io non ho niente contro la Cina e la cultura cinese. Quelli che dicono che ‘dobbiamo difendere la nostra cultura nazionale’ non si rendono conto di quanto sia vantaggiosa la contaminazione. Dall’oriente abbiamo molto da imparare. Il problema è che la Cina è uno stato potente, che ha messo in campo i suoi elementi, li ha mischiati con quelli occidentali con straordinaria efficienza. E’ uno stato capitalista ma non libero, che se ne frega delle regole. Per il mondo è un mix potenzialmente esplosivo”. Se avessimo iniziato a studiare prima la strategia cinese, con forme come l’Ipac, per esempio, secondo lei saremmo arrivati alla firma della Via della seta? “Temo che la firma ci sarebbe stata comunque. Il fronte degli interessi con cui ci confrontiamo è enorme, non possiamo essere ingenui. La Via della seta parte dal desiderio di fare business con un enorme mercato. E la debolezza culturale fa pensare che così siamo grandi amici e tutto andrà bene”. I migliori amici della Cina, i Cinque stelle, hanno sempre sostenuto che Hong Kong è affare interno della Cina. “I diritti umani non sono mai una questione solo interna. Ma l’importante è aprire il dialogo. Il tema vero è che la Via della seta la dovremmo far diventare un’autostrada a due corsie, dove non passano solo le merci, ma anche i pullman di quelli che hanno delle cose da dire. Quando pensiamo allo sviluppo pensiamo che anche i diritti ne facciano parte, perché è solo così che ci si sviluppa davvero. Se difendo i lavoratori in Europa e non difendo quelli in Cina faccio un errore”.
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