Il grande giustificatore
Il procuratore generale William Barr razionalizza e tramuta in realtà tutte le voglie di Trump
Non tutti i tweet di Donald Trump con le maiuscole e il punto esclamativo sono uguali. Alcuni fanno parte della strategia del trollaggio ordinario, altri hanno conseguenze reali, anche molto profonde, e l’entità di queste dipende da quanto le persone intorno a lui si prendono la briga di trasformarli in fatti. Twittare non è implementare. Trump è una figura del delirio e dell’incontinenza verbale, ma anche dell’inconcludenza esecutiva, per dir così, e per un certo periodo si è circondato soprattutto di segretari e consiglieri corrivi, sia nel senso della prona complicità sia nel senso del lasciar correre, del far cadere certe provocazioni, limitandone l’uso nell’ambito della campagna elettorale e della propaganda, che sono le uniche attività a cui il presidente realmente si dedica. Poi è arrivato William Barr, procuratore generale. Nel giro di un anno e pochi mesi in servizio, Barr è diventato il grande giustificatore e inquisitore della Casa Bianca, scudo e spada del presidente, esecutore e portavoce delle sue volontà, producendosi con incontenibile zelo nel tramutare vaghi desideri blaterati senza filtro in decisioni, linee guida, atti con forza esecutiva. Quando, alla fine di maggio, le proteste per l’omicidio di George Floyd a Minneapolis si sono intensificate, spesso offrendo il destro per la degenerazione vandalica di orde a viso coperto, Trump ha twittato: “Gli Stati Uniti d’America designeranno gli Antifa organizzazione terroristica”. Un’iperbole come tante, si è detto qualcuno, mentre i giuristi facevano notare che secondo la legge americana il presidente, tramite il dipartimento di Stato, può designare come terroristi soltanto gruppi al di fuori dei confini nazionali. Il procuratore generale, invece, ha subito notificato la decisione: “Con le rivolte che si sono scatenate in molte delle nostre città, le voci dei manifestanti pacifici e delle legittime proteste sono state prese in ostaggio da elementi radicali e violenti. Gruppi di radicali e provocatori stanno sfruttando la situazione per realizzare la loro agenda violenta ed estremista”, ha scritto Barr in un comunicato. “La violenza istigata e messa in atto dagli Antifa e altri gruppi simili connessi alle rivolte è terrorismo domestico, e sarà trattato di conseguenza”. Il giorno successivo Barr ha ordinato quella che con un eufemismo il governo ha definito una “estensione del perimetro” della Casa Bianca, cioè ha cacciato i manifestanti dal parco adiacente con manganelli, lacrimogeni e spray al peperoncino, per permettere poi al presidente di fare la celebre foto, con Bibbia alla mano, davanti alla chiesa di St. John, operazione che per come è stata condotta ha suscitato persino il pentimento del capo delle forze armate, il generale Mark Milley: “La mia presenza in quel momento ha creato la percezione che i militari fossero coinvolti nella politica interna”, ha detto. Oltre 1.300 ex dipendenti del dipartimento di Giustizia hanno scritto all’ispettore generale del dipartimento, Michael Horowitz, chiedendo chiarimenti sul ruolo di Barr nello sgombero violento dell’intorno della Casa Bianca e più in generale su quelle che appaiono come illegittime interferenze nelle decisioni sul dispiego delle forze per sedare le proteste, specialmente nella capitale. “Chiediamo di aprire immediatamente un’inchiesta sul ruolo del procuratore generale e del dipartimento di giustizia in queste vicende”, si legge nella petizione. E’ stato un consigliere di Barr ad approvare una richiesta della Drug Enforcement Administration – agenzia federale che si occupa di contrasto al traffico di droga, sotto l’egida del dipartimento di Giustizia – di condurre operazioni di sorveglianza sui manifestanti.
Scudo e spada del presidente, Barr è in prima linea nella gestione delle forze dell’ordine per sedare le proteste dopo l’omicidio di Floyd
Le impronte del dipartimento di Giustizia sono ovunque nella gestione con il pugno di ferro delle proteste, per tramite delle forze federali, e Barr è stato spesso anche il volto pubblico del governo, incaricato di mettere in un perimetro di presentabilità e ragionevolezza le decisioni che da ogni parte scatenano richieste di dimissioni. Dell’omicidio di Floyd ha detto: “Quando guardi il video, e immagini che uno dei tuoi cari sia trattato in quel modo, è impossibile per ogni essere umano normale non essere colpito nel cuore dall’orrore”. Allo stesso tempo ha dichiarato che “il sistema di polizia non è razzista” e sfidando il senso del ridicolo ha detto in diretta televisiva che il presidente, prima che tutto questo accadesse, era “in prima linea” nella lotta al razzismo.
Giusto un paio di giorni fa il presidente ha fatto un tweet elogiativo di Barr che era spurio, fuori contesto rispetto alle circostanze odierne e anche difficile da afferrare per chi non ha in mente l’epopea del procuratore. Citando Barr in un’intervista a Fox News, Trump ha scritto: “Sono molto preoccupato dai primi esiti dell’inchiesta Durham”. L’inchiesta Durham è un’iniziativa presa da Barr circa un anno fa per indagare le origini e i risvolti dell’accusa di collusione con la Russia che è gravata sulla testa di Trump per la prima parte del mandato, e che si è conclusa con il rapporto Mueller, documento che non esclude collegamenti malevoli fra l’Amministrazione e il Cremlino ma che non ha inchiodato il presidente come molti speravano. La controinchiesta era la risposta che Trump esigeva dal “suo” procuratore generale, e vale la pena di ricordare che il presidente ha rotto ed infine licenziato con infamia il primo procuratore generale, Jeff Sessions, proprio perché si era ricusato sull’inchiesta sui rapporti con la Russia. Trump non gliel’ha mai perdonato, dimenticandosi in fretta del fatto che Sessions, allora senatore dell’Alabama, è stato il primo membro del Congresso ad appoggiare Trump quando era un fenomeno da baraccone impegnato in una campagna elettorale senza futuro. Barr ha affidato l’indagine al procuratore veterano John Durham, e ora fa trapelare le prime impressioni su quello che il capo dell’indagine sta scoprendo: “Siamo preoccupati dalla motivazione dietro all’indagine molto aggressiva che è stata lanciata contro la campagna di Trump senza che avesse una minima base su cui poggiarsi”, ha detto, usando una circonlocuzione che in trumpese si traduce: “Witch hunt!”. Barr è dunque l’uomo di Trump sul campo per sedare le proteste e occuparsi dei problemi legali ordinari e anche la persona incaricata di ripulire il passato, agevolandone la riscrittura a favore di presidente.
E’ stato definito il “Carl Schmitt del nostro tempo”. E’ un’iperbole che coglie però la concezione realista dell’autorità
Lo spregiudicato sfruttamento di Barr per coprire ogni magagna e arginare ogni problema configura una perniciosa forzatura istituzionale che di rado si è presentata nella storia americana. Nell’ordinamento degli Stati Uniti il procuratore generale è figura cruciale per via della sua indipendenza dagli ordini e soprattutto dalle finalità politiche del presidente. Questo tratto di indipendenza è stato mantenuto anche in alcune delle circostanze istituzionali più complicate o corrotte della storia recente. Sull’inglorioso finire della presidenza Nixon, il ministro della Giustizia, Elliot Richardson, si è dimesso pur di non licenziare il procuratore speciale che indagava sul Watergate, Archibald Cox, come gli chiedeva il presidente. John Ashcroft ha negato da un letto di ospedale la riautorizzazione del programma di interrogatori duri, giudicata illegale, che due consiglieri della Casa Bianca di George W. Bush volevano fargli firmare, approfittando dell’infermità. Questo non significa che procuratori generali e presidenti non si trovino ad avere vedute simili e che, anzi, questi ultimi non li scelgano tenendo conto dell’affinità ideologica e culturale. Barack Obama ha scelto Eric Holder, un amico personale e molto vicino alla voce più ascoltata alla Casa Bianca, quella di Valerie Jarrett. Holder è stato il ministro più longevo e uno dei più importanti di quella stagione.
In Barr, il presidente ha trovato però un altro tipo di disponibilità e di fervore. Sul suo curriculum di devoto a “law and order” Trump non poteva avere dubbi, dato che Barr, in una sua breve precedente esperienza come procuratore generale, aveva firmato l’invio di duemila soldati federali per contenere l’insurrezione di Los Angeles del 1992, scatenata, anche allora, dalle botte della polizia a un uomo nero disarmato (in sei giorni sono morte negli scontri 63 persone). Alla fine delle violenze, Barr ha lamentato il margine di manovra troppo limitato concesso alle autorità: “Avremmo potuto ripulire tutto. Purtroppo abbiamo incriminato i poliziotti e non ci siamo mai occupati dei banditi”, ha detto. Inoltre, Barr è uno dei più noti esponenti di una scuola interpretativa della Costituzione nota come “teoria dell’esecutivo unitario”, che attribuisce al presidente poteri pressoché illimitati sul ramo esecutivo nella sua interezza. Si tratta di una caratteristica essenziale per Trump, il quale non ha alcuna contezza del dettato costituzionale e dei limiti del potere presidenziale, ma governa partendo dal presupposto che il potere esecutivo dell’inquilino della Casa Bianca sia senza limiti, e che lui possa disporre a piacere di tutti gli strumenti che gli capitano a tiro. Trovare chi a posteriori possa giustificare in termini giuridici la sua convinzione è importante. E Barr è un’autorità suprema in questo senso.
Il procuratore guida anche la controinchiesta sulla collusione con la Russia, questione che ha fatto saltare il suo predecessore Sessions
Tamsin Shaw, storica e filosofa della New York University, ha scritto che Barr è il “Carl Schmitt del nostro tempo”, analogia che è allo stesso tempo troppo nobilitante e troppo ingenerosa per un procuratore generale che appare lontano anni luce dal maligno genio legale che diede forma al Terzo Reich. Quello che la storica intende mettere in luce, tuttavia, è che Barr abbraccia una concezione del potere esecutivo ampia, non costretta entro certi confini da altri poteri, perché abbraccia l’idea schmittiana che gli ordinamenti giuridici non siano basati su principi morali intangibili, ma sull’autorità di chi li stabilisce, li applica e li fa rispettare. E’ attraverso questa lente che Barr interpreta la visione dei Padri costituenti, come ha detto di recente a un convegno della Federalist Society che ha fatto imbestialire l’altra metà del mondo giuridico: “Il potere esecutivo ha la funzione di gestire funzioni essenziali per la sovranità, come la conduzione delle relazioni internazionali e la gestione della guerra, che per la loro stessa natura non possono essere regolate da un regime legale pre-esistente, mentre invece richiedono velocità, segretezza, unità d’intenti e prudenza nel giudizio per affrontare circostanze contingenti. I Padri fondatori hanno concordato che, proprio in virtù della natura delle attività descritte e del tipo di decisione che queste richiedono, la Costituzione generalmente conferisce autorità su queste sfere all’esecutivo”. Diversi giuristi hanno denunciato questa presa di posizione come un flagrante abuso del potere esecutivo, così com’è presentato nell’articolo II della Costituzione, e qualcuno – come Shaw – riconduce questa impostazione al cattolicesimo di tipo conservatore che Barr interpreta. In questa visione, il diritto naturale regola alcune questioni morali fondamentali – e infatti Barr interpreta la libertà religiosa protetta dal Primo emendamento in modo espansivo – ma nelle azioni di governo, dominio pressoché incontrastato dell’autorità amorale, ciò che conta sono i rapporti di forza, la capacità di mantenere l’ordine, l’efficienza esecutiva. Questi presupposti giuridici hanno trovato espressioni materiali adeguate quando il governo si è trovato a gestire una gigantesca ondata di proteste in decine di città. Fedele al suo credo schmittiano, Barr ha coordinato l’esecuzione sul campo di una dottrina del potere esecutivo illimitato che s’accorda perfettamente con la visione che Trump incarna senza nemmeno saperlo. Barr dunque non è soltanto un mero esecutore delle direttive del presidente: è la giustificazione giuridica vivente degli istinti trumpiani.