Populisti e giornalisti
L’odio del presidente filippino Rodrigo Duterte per la stampa ha un volto, quello di Maria Ressa
Roma. Maria Ressa è già da anni il simbolo della battaglia per la libertà di stampa che nelle Filippine si fa sempre più difficile. Cinquantasei anni, reporter della Cnn e fondatrice di Rappler, uno dei giornali d’inchiesta più critici del governo di Rodrigo Duterte, Ressa è stata condannata ieri da un tribunale di Manila per diffamazione e rischia sei anni di carcere. La causa risale al 2012, quando pubblicò un’inchiesta scritta dal giornalista Reynaldo Santos Jr (anche lui condannato) sui traffici illegali di Wilfredo Keng, uomo d’affari molto in vista nelle Filippine. Ressa e Reynaldo Santos ora sono liberi su cauzione in attesa del processo d’appello, ma questa prima condanna è un segnale inquietante sulla stretta che Duterte ha dato al giornalismo indipendente.
Keng, in una dichiarazione, ieri ha detto che si sente finalmente “vendicato” e che il governo non c’entra niente con lui, visto che si tratta di un “privato cittadino”. Ma tutto l’impianto accusatorio contro Rappler e la sua fondatrice è stato in realtà facilitato dal governo populista di Duterte, che già da tempo si riferisce ai giornalisti come “spie”, “avvoltoi”, “feccia”, e nel 2016 disse la famosa frase: “Solo perché sei un giornalista, non è che non potresti essere ammazzato se sei un figlio di puttana”, sottolineando di voler “uccidere il giornalismo”, in generale, nelle Filippine.
Da quattro anni Duterte è alla guida di uno dei più importanti paesi asiatici, il cui sistema democratico è messo a dura prova dall’autoritarismo e dal populismo con i quali governa. Come molti governi autoritari, Duterte ha usato questo periodo d’emergenza della pandemia per aumentare la pressione sulla stampa libera. All’inizio di maggio la Commissione nazionale delle telecomunicazioni di Manila ha ordinato al gigante Abs-Cbn, la prima tv commerciale d’Asia, di sospendere tutte le operazioni di trasmissione. Al colosso dei media, spesso criticato – o meglio, insultato – da Duterte per le sue inchieste sulla campagna elettorale del 2016, non è stata rinnovata la concessione a trasmettere. Nel mezzo della pandemia, le reti televisive e radio tra le più seguite dai cittadini sono state spente. Ieri, dopo la sentenza contro Ressa, la Abs-Cbn ha diffuso un comunicato molto scarno ma eloquente: “Abs-Cbn News è un tutt’uno con i nostri colleghi giornalisti nel sostenere la libertà di stampa e la libertà di parola nel paese. La nostra missione è dare notizie e informazioni al pubblico e dare voce ai cittadini filippini”.
Ieri molti osservatori di questioni asiatiche sottolineavano il fatto che la sentenza è un punto di non ritorno nel percorso già da tempo intrapreso da Duterte, e che dovrebbe allarmare le democrazie occidentali. Ma le Filippine, un tempo il paese più intimamente legato all’occidente, si stanno allontanando sempre di più. Amal Clooney, avvocato per i diritti umani e membro dello staff legale di Maria Ressa, ha scritto qualche giorno fa sul Washington Post che questa sentenza sarebbe stata un “test per la democrazia”: “L’Amministrazione Duterte ha di recente approvato nuove leggi draconiane, il mese scorso ha chiuso la più grande emittente del paese. Ma i giudici indipendenti non dovrebbero essere complici di certi abusi. Sono la nostra unica speranza per contrastarlo. Il modo in cui questo caso verrà gestito sarà un segnale di quel che ci aspetta. Maria affronta tanti altri casi giudiziari che le fanno rischiare decenni dietro le sbarre, anche tutti sono ugualmente riconosciuti come falsi. L’Unione Nazionale dei Giornalisti delle Filippine ha definito questa raffica di azioni legali che sta subendo un ‘atto di persecuzione spudorata da parte di un governo prepotente’”. E poi: “Se Maria dovesse essere condannata per aver svolto il suo lavoro, il messaggio per gli altri giornalisti e le altre voci indipendenti sarà chiaro: stai zitto, o il prossimo sarai tu”. L’autocensura è solo l’inizio.