Il “secolo africano” alla sfida del Covid
La maturità di governi e società del continente e la buona tenuta economica di fronte alla pandemia. Segnali di ottimismo e una incognita. Parla Alessandro Vinci, autore di “Africa, impresa possibile”
Secondo la Banca Mondiale, il Covid provocherà un crollo dell’economia come non se ne vedeva dal 1870: un meno 5,2 per cento, che è oltre il doppio che la crisi del 2008. Ma una trentina di paesi nel mondo riusciranno comunque a concludere il 2020 con una crescita del pil. Oltre i due terzi di questi paesi stanno in Africa, oggetto anche di un recente dossier dell’Economist. Ma sul tema è anche uscito un recentissimo libro in italiano: “Africa, impresa possibile. Sfida e potenzialità di un continente” (Paesi edizioni). Un'opera imperniata anche sulle testimonianze di prima mano di imprenditori italiani che sono andati a investire in Africa. Il libro è uscito subito prima del lockdown mondiale, ma secondo Alessandro Vinci, l’autore, il modo in cui l’Africa ha sostenuto l’emergenza “dovrebbe finalmente aiutare gli scettici a ricredersi. L’Africa non è solo il continente del futuro, come in molti ripetono. È anche il continente del presente”.
Non solo Africa, certo. Fa sensazione infatti il 51,1 per cento atteso per la Guyana: un paese sudamericano dove è appena stato scoperto il petrolio. Con solo l’1 per cento, spicca nella lista poi la Cina, per quanto paese che è all’origine del disastro. Ma è vero che si tratta comunque di un risultato miserrimo per una economia di cui si diceva che stava perdendo slancio solo per essere calata nel 2019 a un 6,1 per cento che era il suo minimo da 30 anni. L’1 per cento è comunque anche il dato del Laos, mentre l’altro “comunismo di mercato” del Vietnam sta al 2,8 per cento. Sempre in Asia si segnalano sull’Himalaya l’1,8 del Nepal e l’1,5 del Bhutan; attorno al Golfo del Bengala l’1,6 del Bangladesh e l’1,5 di Myanmar; in Asia Centrale l’1,5 dell’Uzbekistan.
21 dei 30 paesi indicati, però, sono in Africa. Nell’ordine: Uganda (3,3); Benin e Etiopia (3,2); Egitto (3); Costa d’Avorio (2,7); Gambia e Tanzania (2,5); Guinea (2,1); Burkina Faso, Malawi e Ruanda (2); Ghana e Kenya (1,5), Gibuti, Mozambico e Senegal (1,3); Burundi, Niger e Togo (1); Mali (0,9); Repubblica Centrafricana (0,8). Vero che essendo i paesi africani in tutto 54 in effetti risulta che anche tra di essi la maggior parte è in recessione. D’altra parte l’Africa è anche il Continente tuttora meno colpito dal Covid, anche se l’individuazione di positivi in un carico di migranti appena portato dalla Sea Watch indica come pure là il virus stia arrivando. In concreto lì la provenienza era il Camerun, ma c’è ad esempio il Sudafrica che ha appena superato quota 110.000 contagi, e l’Egitto è vicino a 60.000.
Petrolio della Guyana a parte e a parte alcuni effetti di trascinamento, analisti interrogati sul rapporto della Banca Mondiale hanno individuato almeno cinque fattori che spiegherebbero la “tenuta” della gran parte di questi paesi.
1) Sono paesi “significativamente meno integrati nel commercio mondiale”, con indici di export/Pil pari al 35 per cento in meno che la media dei paesi emergenti, e gli indici di export più import/Pil al 25 per cento in meno.
2) Hanno un settore agricolo, i cui prezzi hanno retto meglio, il cui peso è il doppio rispetto alla citata media dei paesi emergenti.
3) Per servizi, gravemente colpiti, sono invece il 20 per cento in meno.
4) Sono poco dipendenti anche dal turismo, pure al collasso.
5) L’impatto della pandemia è stato del 75 per cento inferiore alla media dei paesi emergenti, con conseguenti restrizioni che sono state del 20 per cento meno gravi.
Vinci però in parte obietta a questa immagine di un’Africa protetta dalla propria arretratezza. “In realtà paesi come il Senegal o la Costa d’Avorio sono molto ben collegati ai circuiti internazionali. È vero invece che si trattava di paesi che partivano tutti da tassi di crescita altissimi: il 6-8 per cento. Come per la Cina, alla fine il ribasso pur forte non è bastato a portare una recessione. E in questo momento non c’è nessun’altra parte del mondo che può crescere come l’Africa”.
Vinci osserva che se il Covid ha colpito finora poco è anche perché governi e società dei paesi africani hanno mostrato una grande maturità di fronte alla sfida. “I governi sono riusciti a prendere decisioni e a imporre restrizioni che si sono rivelate efficaci anche per una grande prova di responsabilità civile da parte dei singoli cittadini, perché purtroppo in Africa lo stato non riesce a arrivare ovunque, specie nelle zone interne. Evidentemente c’è stata una responsabilizzazione collettiva che ha dimostrato coma l’Africa recepisce bene i messaggi globali, anche a livello sanitario. Gli africani vogliono essere parte del mondo globale e seguire un percorso comune a resto dell’umanità, pur tenendo ovviamente a mantenere la propria identità”.
C’è dunque una incognita, se alla fine la pandemia non finirà per devastare l’Africa come sta devastando l’America Latina. C’è però anche una certezza, su quello che un report dell’Economist di un mese fa ha appena definito comunque “secolo africano”, riprendendo uno slogan lanciato nel 1999 dall’allora presidente sudafricano Thabo Mbeki nel suo discorso di insediamento. Un dato che il report ricorda è che nel 1885, al massimo dell’espansione colonialista. I 100 milioni di abitanti dell’Africa erano un terzo di quelli dell’Europa. Adesso, con 1,2 miliardi di persone, sono il doppio e con una età media di 19 anni contro 43. Come ci ricorda Vinci, “se dal punto di vista sanitario questa giovane età spiega la maggior resistenza al Covid, dal punto di vista economico rappresenta una spinta all’imprenditorialità fortissima. Sono giovani che sono connessi alle tecnologie digitali come e più che i loro coetanei nel reso del mondo, e nel libro ho ricordato come nel 2018 i finanziamenti alle start-up africane erano raddoppiati”. Ricordava appunto l’Economist che mentre meno di un quarto di tedeschi, giapponesi e britannici credono che le loro condizioni di vita miglioreranno nei prossimi 15 anni, nel caso di kenyani, nigeriani e senegalesi si sale ai due terzi.