Intellettuali dell'islam che amano l'occidente più di tanti occidentali
Dall’algerino Bencheikh all’iraniana Shalmani. “L’occidente è il luogo dove si scappa quando si vuole sfuggire all’ingiustizia del proprio paese d’origine. Dire che è colpevole di tutto, per meglio giustificarsi, va di moda”
Roma. “Il razzismo degli antirazzisti”, titola su Le Matin d’Algerie il poeta esule a Parigi Kamel Bencheikh. “In Francia e in Belgio, non giustiziamo apostati, non crocifiggiamo eterodossi, non lanciamo pietre sulle infedeli, non sputiamo sugli eresiarchi. Oggi Mauritania e Arabia Saudita ospitano invece ancora il loro Ku Klux Klan”. Bencheikh dice che questo antirazzismo occidentale si sta mordendo la coda per trasformarsi in razzismo. “Basta vedere la folla arrabbiata, la bava alla bocca, per rendersi conto che abbiamo a che fare con persone venute a insultare l’uomo bianco. Il totalitarismo è di nuovo tra noi. Uno stalinismo che piega le ginocchia e la schiena, un comunitarismo che fabbrica la vittimizzazione indigenista”. Parla di giovani fuggiti da Bouteflika e Gheddafi “per venire e sputare un odio incomprensibile a Parigi o Bruxelles”.
L’articolo di Bencheikh è solo un esempio di un gruppo nutrito di dissidenti liberali nel mondo islamico che in questi giorni stanno difendendo l’occidente meglio di quanto non stiano facendo tanti occidentali. “Il razzismo divide e avvelena ogni società perché suddivide le persone in razze ed etnie e polarizza ideologicamente la società” ha scritto il dissidente egiziano Kamel Abdel Samad, che oggi vive sotto scorta in Germania. “Eleva un gruppo e disprezza l'altro, alimenta l'odio e legittima la violenza. L'antirazzismo dovrebbe fare il contrario, allontanarsi da questa lotta ideologica di trincea e apprezzare l'uomo come individuo valorizzandolo indipendentemente dalla razza, etnia o religione. Ma spesso gli antirazzisti si avvalgono degli stessi mezzi dei razzisti: polarizzazione, loda un gruppo e disprezza gli altri, legittima la violenza come mezzo di lotta ideologica! Da questo punto di vista, l'antirazzismo divide la società come il razzismo, perché non gli interessano le persone, ma l’ideologia”.
Si è fatta sentire dagli Stati Uniti la dissidente di originale somala ed ex parlamentare olandese, Ayaan Hirsi Ali, minacciata di morte: “L’America è il miglior posto al mondo per essere nera, donna, gay, trans o qualsiasi cosa vogliate essere. Abbiamo i nostri problemi, ma il sistema è tutto tranne che razzista”. E’ durissima la doppia requisitoria sul Monde e il Point dello scrittore algerino Kamel Daoud. “C’è un istinto di morte nell’aria per la rivoluzione totale immaginata da alcuni”, scrive l’autore de “Il caos Mersault”. Parla di “barbarie vendicativa” che non vuole cambiare l’occidente, ma “vederlo morire nella sofferenza”. Scrive di “processi antioccidentali in stile sovietico”. Daoud ricorda che “l’occidente è il luogo dove si scappa quando si vuole sfuggire all’ingiustizia del proprio paese d’origine, alla dittatura, alla guerra, alla fame, o soltanto alla noia. Dire che l’occidente è colpevole di tutto, per meglio giustificarsi, va di moda. Con il grande slancio dell’antirazzismo, ritorna l’inquisizione. L’abbiamo già conosciuta durante il fascismo”.
Durissima con l’antirazzismo ideologico anche la scrittrice iraniana Abnousse Shalmani, che al Figaro dice: “Il nuovo antirazzismo è il razzismo mascherato da umanesimo”. Condanna il discorso sull’identità “che riduce ogni essere umano a sesso, razza, religione, senza la speranza di sfuggirgli”, in una sorta di “inevitabilità della nascita, in altre parole una teoria precedente la rivoluzione francese”, una “prigione della vittimizzazione”, l’idea che “tutti i bianchi sono cattivi e tutti i neri vittime”, un multiculturalismo “veleno separatista”.
E così, se sul Monde Thomas Piketty invita l’occidente a pentirsi del passato coloniale, la scrittrice senegalese Fatou Diome sempre sul Monde critica chi agita la “decolonizzazione”: “È un’emergenza per chi che non sa ancora di essere libero. Il motto della colonizzazione e della schiavitù è un business”. Intellettuali venuti dalle dittature più spietate ma molto più liberi e orgogliosi di quanto dia loro l’occidente degli occidentali che fanno continuo mea culpa. E che non solo non vedono i nuovi mercati di schiavi, ma che al Consiglio dei diritti umani dell’Onu accolgono stati come la Mauritania, dove due su cento sono ancora in catene.