Leggere le viscere di Bolton
Come prende le decisioni di politica estera Trump? Lo racconta il suo ex consigliere, con dettagli che spiegano tutto. E i sospiri sugli “adulti nella stanza” erano una scemenza
John Bolton è stato consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump fino a nove mesi fa e ha scritto un libro per raccontare cosa è successo nell’anno e mezzo che ha passato alla Casa Bianca. E’ uscito due giorni fa – doveva uscire ad aprile ma la Casa Bianca lo ha bloccato finché ha potuto – e se ne parla da una settimana perché sui giornali americani sono uscite molte anticipazioni che contenevano i passaggi più succosi e gli scandali più scandalosi. In realtà andrebbe letto perché a ogni pagina c’è qualche informazione gettata lì quasi in modo casuale che fa pensare e perché definisce la politica estera americana di adesso.
Bolton comincia il suo incarico nell’aprile 2018, Trump sta per bombardare la Siria per la seconda volta dopo un massacro con il cloro e lui scalpita per partecipare alle decisioni dentro alla Casa Bianca ma uno stuolo di avvocati lo tiene fuori dalla porta perché finché la nomina non è ufficiale lui non può fare nulla. Appena si insedia telefona al capo del Pentagono, il generale Jim Mattis, per sapere che intenzioni ha e come vuole attaccare il rais siriano Bashar el Assad e si accorge che il generale al telefono sta leggendo da un foglio che ha davanti. E’ soltanto una riga, ma è un’ottima introduzione per l’Amministrazione Trump: Mattis sa che tutto quello che dice farà parte della storia e che non sarà una storia misericordiosa, sa che tutti faranno trapelare informazioni, si pugnaleranno fra loro, scriveranno libri, e allora lui legge. Se proprio il destino è finire nelle pagine di qualche resoconto micidiale è meglio avere una dichiarazione pensata, rivista e corretta anche durante una telefonata. Poco dopo Bolton partecipa a un incontro per decidere l’azione punitiva e l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Nikky Haley, raccomanda che l’operazione militare americana in Siria non faccia perdite fra i militari “perché mio marito è nella Guardia nazionale”. In pratica Bolton scrive che la Haley è scema, con una frase. Ecco: il diario dell’ex consigliere per la Sicurezza nazionale è tutto così, più delle grandi accuse – Trump che dice a Xi Jinping che i campi di concentramento contro gli uiguri sono la soluzione giusta – conta la collana infinita di fatti minori. Bolton vorrebbe sapere cosa pensa Trump di Putin, ma in tutto il tempo passato lì dentro non lo sente mai esprimersi sull’argomento, a dispetto della logorrea su tutto il resto (Trump fa soltanto due briefing di intelligence alla settimana invece che uno tutti i giorni e quando li fa parla più lui di chi tiene i briefing). La storia dello strike in Siria va avanti per alcune pagine piene, Mattis riesce a imbrogliare tutti e a presentare opzioni di attacco molto contenute – è il Pentagono che studia i bersagli da attaccare e poi li presenta sotto forma di opzioni, dalla più aggressiva alla più leggera, quindi più Mattis tarda a rivelare le opzioni possibili agli altri e più è lui a mantenere il controllo della situazione, perché gli altri non possono verificare in fretta le informazioni che lui fornisce in ritardo. Qualcuno credeva che una missione militare per punire l’uso di armi chimiche in medio oriente fosse organizzata con un processo decisionale più articolato? Alla fine Trump decide di tirarsi indietro, quando anche Gran Bretagna e Francia stanno per attaccare perché pensano che il raid sia una buona cosa, si tratta pur sempre di ristabilire il concetto di deterrenza (è nell’interesse di tutti che le armi chimiche non siano usate). Secondo lui è un’operazione troppo debole, “così non facciamo nessun danno”. Il capo di staff Kelly lo convince che però è troppo tardi per non fare nulla. L’operazione contro “Animal Assad”, come Trump chiamava il presidente siriano, va avanti. Il raid aereo di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna in Siria dura un’ora e in pratica demolisce un edificio vuoto. L’anno successivo Trump fermerà anche il raid aereo contro l’Iran mentre era in corso, perché di nuovo aveva cambiato idea. Bolton scrive che la Siria, il disastro che ha originato molti altri disastri come l’ascesa dello Stato islamico, la crisi dei migranti, il vento populista che soffia sull’Europa, la repressione brutale di milioni di civili siriani, per l’America è uno “strategic sideshow”. Uno spettacolo marginale. Ogni volta che vediamo l’Amministrazione prendere decisioni sulla Siria, dovremmo ricordare queste parole: a strategic sideshow. Il libro di John Bolton va letto con lo stesso spirito di quando si cercano le conferme dei rebus in fondo alle riviste di enigmistica: ah, ecco com’era la soluzione.
C’è questa sensazione con il libro di Bolton, è come quando si guarda in fondo alle riviste di enigmistica: ah ecco com’era la soluzione
A proposito, ecco un passaggio favoloso che riguarda il presidente russo Vladimir Putin. Bolton va a Mosca per incontrarlo, il russo gli punta il dito addosso e gli dice: devi riferire al tuo presidente che noi (russi) non abbiamo nessun bisogno della presenza degli iraniani in Siria, a noi non portano alcun vantaggio. Loro hanno obiettivi che trascendono la stabilità della Siria (tradotto: Israele e Libano), noi no. Se qualcuno si chiede come fanno gli aerei di Israele a bucare con regolarità quasi settimanale le difese aeree russe e a bombardare le basi iraniane in Siria: ecco com’era la soluzione.
Graeme Wood, che ha scritto una ricca recensione del libro di Bolton per l’Atlantic (una recensione critica che ha per titolo: John Bolton tenta di riscrivere la Storia) dice al Foglio che Bolton ha fatto bene a non parlare alle audizioni in Senato a gennaio, quando si discuteva l’impeachment senza speranze – senza speranze perché i democratici non hanno abbastanza voti al Senato, non perché mancasse il materiale – contro il presidente Trump. E’ una polemica che si è sentita molto in questi giorni: se l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale sapeva tante cose orrende allora perché non ha parlato quando doveva parlare? Wood ha una posizione controcorrente. Se Bolton avesse testimoniato sull’Ucraina avrebbe confermato la tesi dell’accusa, che già era confermata da molti altri testimoni dell’Amministrazione Trump, ma le sue parole sarebbero finite contro il muro dei repubblicani che non volevano cacciare Trump per alcun motivo. Semplicemente avrebbe reso quel loro rifiuto più difficile da digerire, ma ormai gli schieramenti erano quelli e il presidente era già salvo per una questione di aritmetica. I democratici non avevano i voti che servivano. Adesso invece, a quattro mesi dalle elezioni, la testimonianza di Bolton arriva da sola, in forma scritta, con un corredo infinito di dettagli. L’impatto di Bolton in tv forse sarebbe stato maggiore ma si sarebbe spento subito, il libro è un attacco più dannoso. Anche se va sempre tenuto in considerazione che i libri a proposito di Trump visto da vicino, che siano scritti da una pornostar oppure dal suo ex consigliere per la Sicurezza nazionale, non spostano i voti.
Trump non capisce le idee dei repubblicani sull’Afghanistan, finirà schiacciato dice Pompeo. “E se lo merita”
Bolton ci tiene a liquidare come un “mito” la versione convenzionale dei primi due anni del mandato di Trump. Scrive che non è vero che nella prima metà le cose siano andate relativamente bene perché con Trump c’erano anche i cosiddetti “adulti nella stanza”, quindi i consiglieri normali, seri, con abbastanza competenza e coraggio da opporsi agli impulsi peggiori del presidente e che poi le cose siano degenerate perché gli adulti se ne sono andati e Trump è rimasto da solo con gli yesmen. Invece i cosiddetti adulti, scrive Bolton che a Washington ha vissuto giorni da reietto e quindi ha i suoi conti da regolare con la anime belle, non hanno preparato per nulla Trump, non hanno contribuito a rendere la Casa Bianca un posto più funzionale, non hanno impostato il lavoro e non hanno migliorato il presidente – anzi, a furia di tentativi infruttuosi di correggerlo, lo hanno lasciato più diffidente che mai. Pensavano di essere così smart da potersi permettere di dire al mondo quanto fossero smart senza che Trump se ne accorgesse, questo è uno dei loro autogol più grossi, scrive Bolton. Ora quando qualcuno tenta di raddrizzare una decisione di Trump ottiene di default l’effetto opposto, il presidente teme la fregatura melliflua e lo respinge. Bolton nota che sarà pur vero che il generale Mattis va in battaglia con le Meditazioni di Marco Aurelio, ma non è granché quando viene il momento di discutere.
Capitolo Nato. Se fosse per Trump, non esisterebbe più. Sapevamo che a luglio 2018, durante il summit di Bruxelles, il presidente americano aveva annunciato un ultimatum perché voleva che tutti i paesi dell’Alleanza atlantica contribuissero di più alle spese e che gli Stati Uniti pagassero di meno. Ma Bolton spiega che l’ultimatum era molto più forte: Trump voleva che l’America pagasse quanto la Germania e che tutti i paesi aumentassero le loro quote al due per cento del prodotto interno lordo entro sei mesi altrimenti avrebbe lasciato la Nato, che tanto si occupa di difendere l’Europa “che è lontana da noi”. E che per di più “fa affari con la Russia, come la Germania che costruisce un gasdotto con la Russia e poi ci chiede di difenderla contro la Russia”. I giornali all’epoca avevano parlato di meltdown, ma la minaccia chiara di lasciare la Nato entro sei mesi era rimasta dentro all’Amministrazione. Pompeo e Bolton – due che i media non hanno mai trattato come “gli adulti nella stanza” – riuscirono a convincere Trump a moderarsi durante l’incontro con gli altri leader perché, gli dissero, c’era in arrivo la questione della conferma del giudice Kavanaugh alla Corte Suprema e avrebbe avuto bisogno dei voti di tutti i senatori repubblicani e mollare la Nato rischiava di mettere troppa carne al fuoco per gestire tutto e bene. Se Trump vincerà un secondo mandato si dovrà tenere a mente questo lato che finora era rimasto nascosto di quel summit. A cominciare dal suo arrivo al nuovo quartier generale della Nato in Belgio, costato cinquecento milioni di dollari. Perché invece non abbiamo costruito un bunker da cinquecento milioni di dollari qui? Oppure perché non abbiamo comprato dei carri armati con quei soldi? Fair point, osserva Bolton. Non ha mica torto Trump. Che continua per tutta la durata della visita a dire: un carro armato da solo potrebbe distruggere questo posto.
Uno dei fallimenti più grandi nel gruppo degli adulti è il dossier afghano. Trump detesta il fatto di aver lasciato mano libera ai generali nel 2017, per tentare ancora una volta di stabilizzare la situazione sul campo e infliggere colpi decisivi ai talebani – una strategia che lui stesso aveva annunciato con un discorso ufficiale. “Abbiamo perso tutto, è stato un fallimento completo. Uno spreco, una vergogna. Tutte quelle perdite, odio parlarne”. E la colpa è dei generali, che nella Casa Bianca di Trump hanno finito per fare la parte dei professoroni in un mondo di populisti. “Ti ho dato tutto quello che hai chiesto. Autorità illimitata, senza freni. Stai perdendo. Ti stanno prendendo a calci in culo. Hai fallito”, dice Trump al generale Mattis. “E’ un film horror e ce ne dobbiamo andare via”. A nulla valgono gli sforzi di Mattis, che cita le operazioni dei paesi della Nato in Afghanistan. “Paghiamo noi la Nato”, risponde Trump. E la presenza dei terroristi dello Stato islamico in Afghanistan? “Lascia che se ne occupino i russi. Siamo a settemila miglia di distanza, dovranno venire loro sulle nostre spiagge, è quello che dicono di voler fare”. L’idea fissa diventerà andarsene, mantenere la promessa elettorale di porre fine alle guerre senza fine e usare i soldi risparmiati dentro i confini degli Stati Uniti invece che fuori. Invano gli spiegano che le guerra non è stata dichiarata dagli Stati Uniti e non finisce quando lo decidono gli Stati Uniti e che ritirare le truppe dall’Afghanistan potrebbe portare verso rischi più alti. Ormai la decisione è presa. “Se queste sono le istruzioni le eseguiremo – dice Pompeo – ma alla storia non passerà come una vittoria. Dacci novanta giorni”. “Più il tempo passa e più questa guerra diventa mia. Non mi piace perdere le guerre. Io non voglio che sia mia. Anche se vincessimo, non ci guadagneremmo nulla” dice Trump. La guerra, gli dice Mattis, è diventata tua il giorno in cui sei diventato presidente. “Avrei dovuto finirla quel giorno”. “Che cosa vuol dire vincere in Afghanistan?”, chiede Trump. “Gli Stati Uniti non sono attaccati”, risponde Mattis.
La Siria è uno show che non ci interessa, uscire al più presto dalla Nato, di Putin non si parla e via tutti i soldati dai paesi stranieri
Più tardi Bolton accompagna Pompeo in macchina e Pompeo gli dice che Trump non ha capito i sentimenti dei repubblicani quando si parla di sconfitta in Afghanistan. “Sarà schiacciato e se lo merita”. Del resto una delle frasi preferite da Trump quando discute di Afghanistan è: “Costa meno ricostruire il World Trade Center (distrutto da al Qaida nel 2001) che fare la guerra in Afghanistan”, una sentenza che se fosse detta in pubblico gli costerebbe molto cara e infatti se ne guarda bene. Entra in scena Zalmay Khalilzad, detto Zal, un afghano naturalizzato americano che Bush figlio nominò ambasciatore a Kabul. E’ in contatto con i talebani, Trump gli assegna il ruolo di inviato speciale per i colloqui di pace. Zal parla la lingua, ha un sorriso fascinoso ed è un diplomatico nato. “E’ un truffatore – dice Trump – ma abbiamo bisogno di un truffatore per fare questo lavoro”. Mentre segue i negoziati confonde spesso l’attuale presidente del paese, Ashraf Ghani, con quello prima, Hamid Karzai (c’è da dire che si somigliano parecchio). Del resto in un altro passaggio del libro chiede al capo di staff Kelly se la Finlandia fa parte della Russia.
La questione afghana diventerà molto importante mano a mano che la campagna elettorale avanza, nei prossimi quattro mesi. Secondo il libro, Trump vuole ritirare tutti i soldati americani dalle basi all’estero, dalla Germania all’Africa alla Corea del sud – e infatti i ritiri da Germania e Africa sono già diventate notizie reali –, nelle riunioni legge quanto costano, sobbalza, ordina di riportarli tutti a casa, respinge le obiezioni. Ma è l’Afghanistan il ritiro più spettacolare del programma. Il dipartimento di stato di Mike Pompeo ha la linea iper trumpiana, vuole arrivare a una numero di soldati pari a zero e Pompeo continua a schermare Khalilzad, non vuole che nessuno gli parli, deve agire da solo altrimenti il succo dei negoziati con i talebani potrebbe finire in mano a chi li vuole bloccare. Gli altri, da Bolton al Pentagono, vorrebbero che restasse nel paese una cosiddetta piattaforma antiterrorismo, qualche migliaio di soldati a impedire che i gruppi terroristici tornino a operare indisturbati e a sorvegliare il programma atomico dell’Iran a ovest e le armi atomiche del Pakistan a sud. Quando Trump salta fuori con l’idea di incontrare i talebani a Camp David tre giorni prima della commemorazione dell’11 settembre, Bolton ringrazia il cielo di essere in missione a Varsavia e quindi di partecipare soltanto in collegamento. Persino da lì sente la tensione nella stanza, anche fra i superlealisti. Il presidente gli chiede cosa pensa dell’idea di un incontro, lui immagina che spiazzerà tutte le fazioni afghane e gli darà il tempo per bloccare l’accordo finale e quindi si dice d’accordo. “Per me è ok, a patto che prima passino per il metal detector più lungo del mondo”, dice.
E’ un truffatore dice Trump del suo caponegoziatore con i talebani, ma abbiamo bisogno di un truffatore per questo lavoro
Ma è sulla posizione di Trump a proposito dell’Iran che Bolton entra in crisi e non riesce più a gestire la situazione, perlomeno quella sua personale. “Mi chiedo perché mi alzo ogni giorno e vengo alla Casa Bianca – scrive – mentre il presidente rifiuta di riconoscere gli attacchi dell’Iran alle petroliere nel Golfo nel maggio 2019 come fatti gravi. Sono incidenti minori, dice. In realtà fanno da preludio all’abbattimento di un aereo spia americano, un velivolo sofisticato che gli iraniani distruggono con un missile che raggiunge una quota molto alta. Bolton è conscio di essere considerato un falco, quindi lascia che la questione si srotoli da sola in modo che non sembri che sta facendo pressioni, sempre per la solita regola che Trump è convinto che tutti gli esperti attorno a lui in realtà lo vogliano ingannare e vogliano impedirgli di usare i suoi istinti, che hanno sempre ragione. Si dice d’accordo con una rappresaglia dura, un bombardamento in Iran che colpirà tre obiettivi e causerà vittime e che non è stato proposto da lui. “Bolton è il moderato”, lo sfotte Trump. L’azione è prevista tra le sette di sera, ora del decollo, e le nove, ora del bombardamento, e il consigliere per la Sicurezza nazionale va a casa a cambiarsi perché sa che sarà una notte lunga. E’ ancora in macchina nel traffico di Washington alle sette e venti quando Trump chiama lui, Pompeo e il Pentagono e dice che blocca tutto. “Faremo centocinquanta morti”, spiega, non è proporzionato, sono troppi sacchi per i cadaveri. Quando arriva alla Casa Bianca Bolton scopre che l’avvocato del consiglio per la Sicurezza nazionale, John Eisenberg, era entrato nello Studio Ovale e aveva detto quella cifra a Trump – senza nessun fondamento – e che non c’era proporzione tra l’attacco dell’Iran e la rappresaglia americana. Di nuovo: ecco qual era la soluzione. La cosa più irrazionale che abbia mai visto, scrive Bolton. Cominciano i suoi ultimi tre mesi.