Ecco perché Palazzo Chigi non ha capito la vera posta in gioco con la Cina

Giulia Pompili

Non c'è solo la sicurezza nazionale in ballo, quando si parla di rapporti con Pechino, ma un'idea di mondo, a cui dovrebbe corrispondere una posizione politica chiara

L'altro ieri sera Robert O'Brien, consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente americano Donald Trump, ha incontrato a Parigi il consigliere diplomatico del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Pietro Benassi. C'è stata una riunione con gli omologhi di Francia, Germania, Regno Unito e Italia, e poi, in serata e subito dopo il bilaterale con Jan Hecker, consigliere per la politica estera del cancelliere Angela Merkel, il falco anticinese di Trump O'Brien ha incontrato il rappresentante di Palazzo Chigi. “Stati Uniti e Italia hanno lavorato insieme nella lotta contro #COVID19. Oggi abbiamo discusso della riapertura delle nostre economie, di Cina, di 5G e sicurezza”, ha scritto su Twitter O'Brien. Ex ambasciatore a Berlino, Benassi è l'uomo che Conte ascolta più di chiunque altro per la politica estera e forse non è un caso che l'incontro non sia stato presenziato dal consigliere militare Carlo Massagli: non c'è solo la sicurezza nazionale in ballo, quando si parla di rapporti con la Cina, ma un'idea di mondo, a cui dovrebbe corrispondere una posizione politica chiara. E' ormai finito il tempo delle ambiguità, è il messaggio della Casa Bianca di Trump agli alleati, non si può più separare l'economia dalla politica, i fatti interni da quelli che ci coinvolgono.

   

Negli ultimi mesi l'Amministrazione Trump ha dato forma a una posizione finora esplicitata solo a parole. Lo ha fatto con una serie di azioni mirate a frenare le attività della Cina, ma che soprattutto urtano la sensibilità di Pechino perché colpiscono ai fondamenti del nuovo Sogno cinese del presidente Xi Jinping. Si direbbe che hanno vinto i falchi anticinesi alla Casa Bianca, la linea dura: se da un lato la guerra dei dazi con la Cina serviva a Trump soprattutto in chiave propagandistica ed elettorale (lo ha spiegato bene anche John Bolton nel suo famoso libro: Trump è affascinato e simpatizza per le figure autoritarie come Xi), ormai siamo passati a una nuova fase dei rapporti Usa-Cina. Lo spiegano bene oggi Steven Lee Myers e Paul Mozur sul New York Times: oriente e occidente si stanno avviluppando in una “spirale ideologica” che determinerà i rapporti di forza dei prossimi anni. Oltre alla lobby contro i colossi delle telecomunicazioni cinesi che l'America porta avanti ormai da anni – e la decisione del Regno Unito di ieri è il primo grande successo di Trump – nelle ultime settimane l'America ha colpito la Cina su vari fronti, e a ogni azione ha corrisposto una reazione cinese.

  

Hong Kong

La prima azione concreta degli Stati Uniti sin dall'entrata in vigore della legge sulla sicurezza nell'ex colonia inglese, che di fatto cancella l'autonomia di Hong Kong, è arrivata martedì scorso. Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo chiamato “Hong Kong Autonomy Act”, che sanziona alcuni funzionari cinesi e alcune banche, ma che termina anche il rapporto preferenziale sul commercio che esiste sin dal 1992 tra l'America e l'autonoma Hong Kong. In una conferenza stampa Trump ha detto che “da oggi Hong Kong sarà trattata proprio come la Cina, nessun privilegio, nessun trattamento economico speciale e non importeremo più materiale tecnologico sensibile”. Il ministero degli Esteri di Pechino ha condannato la legge, ha fatto sapere che è una violazione delle norme internazionali, e una “grave interferenza” negli affari interni. “Per proteggere i suoi interessi legittimi”, ha fatto sapere il ministero, “la Cina prenderà le misure necessarie per imporre sanzioni contro le istituzioni e gli individui statunitensi collegati”.

 

Xinjiang

Da anni report delle Nazioni Unite e reportage della stampa denunciano la situazione nella regione autonoma cinese, la cui maggioranza della popolazione è costituita dai turcofoni musulmani uiguri, che il Partito comunista cinese vorrebbe “assimilare” agli han, l'etnia cinese. Nel novembre del 2019 sono stati pubblicati sulla stampa internazionale i cosiddetti “Xinjiang Papers”, che dimostrano un sistema capillare di controllo e la trasformazione della regione in uno stato orwelliano. Almeno un milione di uiguri sarebbe attualmente rinchiusa nei “campi di rieducazione”. Il 10 luglio scorso il dipartimento del Tesoro americano ha imposto sanzioni contro quattro funzionari cinesi ritenuti responsabili delle detenzioni di massa e accusati di violazione dei diritti umani. Tra loro c'è Chen Quanguo, segretario del Partito comunista dello Xinjiang, governatore della regione, forse l'individuo più alto nella catena di potere di Pechino mai sanzionato da Washington. Il ruolo di Chen nella repressione è evidente negli Xinjiang Papers. Come contromossa, Pechino ha imposto sanzioni economiche e il divieto di viaggio in Cina contro un gruppo di parlamentari americani. Due di loro sono gli influenti senatori Marco Rubio e Ted Cruz, che da molto chiedono al governo di Washington una posizione più dura contro la Cina.

  

Mar cinese meridionale

Tre giorni fa il Dipartimento di stato americano ha pubblicato una dichiarazione di Mike Pompeo che cambia un po' la posizione di Washington su una delle aree più calde del pianeta. Secondo Pompeo, gli interessi internazionali nel Mar cinese meridionale stanno subendo una minaccia “senza precedenti”, perché “Pechino usa l'intimidazione per mettere in pericolo il diritto sovrano dei paesi costieri del sud-est asiatico nel mar cinese meridionale, li caccia dalle risorse offshore, vuole affermare il suo dominio unilaterale e sostituire il diritto internazionale con la forza”. Il punto è che Pechino lo fa sin dal 2010, quando è stata introdotta la cosiddetta “linea dei nove punti”, una nuova cartina geografica messa a punto dalla Cina che ha ridisegnato il mondo secondo i territori rivendicati dalla Cina. Il fatto è che nel 2016 una sentenza del tribunale arbitrale delle Acque dell'Aia, con una sentenza unanime, ha detto che non c'è nessuna base legale per le rivendicazioni cinesi nell'area. Ciononostante, sin dal 2016 le attività cinesi nell'area si sono intensificate, creando periodiche tensioni con le Filippine, il Vietnam, l'Indonesia. Ora Pompeo torna sul tema, e riprendendo quella sentenza dice che “il mondo non può consentire a Pechino di trattare il Mar cinese meridionale come il suo impero marittimo”. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha risposto a Pompeo che “gli Stati Uniti stanno facendo la cosa sbagliata e sollecitiamo il governo a smettere di creare problemi nel Mar cinese meridionale. La Cina difenderà sempre con fermezza la propria sovranità e sicurezza”.

  

Taiwan

La scorsa settimana il Dipartimento di stato americano ha approvato la vendita di seicento milioni di parti di missili a Taipei, sede del governo dell'isola di Formosa che la Cina rivendica come parte del suo territorio. Si tratta di un rinnovo delle batterie antimissili di Patriot dispiegate sui confini della Repubblica di Cina, che da sessant'anni subisce la minaccia esistenziale di Pechino e il pericolo di una “riconquista” militare. In risposta alla mossa americana, la Cina ha deciso di mettere sotto sanzioni l'americana Lockheed Martin.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.