L’aria di questi giorni prima del vertice europeo sul Recovery fund è quella delle occasioni importanti: grande solennità, grande ambizione, nervi a fior di pelle. Mentre i leader dell’Unione europea preparano la valigia – quante camicie portare? Si inizia venerdì, ma quando si finisce? – e alcuni di loro continuano le visite forsennate che hanno scandito l’ultima settimana, è cominciato il totovertice: chi cede, chi alza la posta, chi non è disposto ad alcun compromesso, chi invece è orgoglioso di poter accettare compromessi promettenti, chi dice che entro domenica è fatta, chi invece pensa a un altro vertice pre vacanze, frettoloso e decisivo. L’attesa è grande, ma c’è anche la consapevolezza che questo è un momento cruciale per il futuro dell’Ue. Non solo per una questione economica molto evidente: c’è bisogno di aiuto e aiuti, di pianificazione e certezza, altrimenti la crisi da coronavirus non sarà superata. Ma anche perché per la prima volta l’Ue fa un test su uno dei temi che più le stanno a cuore – e che insegue e rifugge e reinsegue – che è quello della solidarietà. In passato molti tentativi fatti per costruire una solidarietà europea sono falliti e ha vinto l’istinto nazionale o il veto di qualcuno. Pensiamo alla questione migratoria, che doveva essere risolta da uno sforzo di solidarietà e che invece è stata rimandata, annacquata, ignorata. Ma l’assenza di solidarietà si registra in tanti altri casi – quando si discute di fondi e budget in particolare – e le fratture ideologico-geografiche ritornano spesso, e sempre uguali: l’est contro l’ovest, il nord contro il sud. Il vertice del 17-18 luglio non fa eccezione ma conserva una sua eccezionalità perché la proposta di cui si discute introduce un elemento rivoluzionario: la creazione di un debito comune europeo, se non ci salviamo tutti non si salva nessuno. L’Ue si vuole dotare di strumenti che possano rendere concreta la solidarietà e quindi l’integrazione, cosa che fino a poche settimane fa era impensabile e ora è invece il cuore del negoziato.
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