Resistente quanto l’Europa c’è soltanto la convinzione dell’imminente morte dell’Europa. E’ un’altra cosa che accomuna il continente e la cancelliera tedesca, questo: l’imminente morte (politica) di Angela Merkel va a braccetto con quella dell’Unione europea. In questi giorni di grandi feste da Recovery, dopo l’apnea di quattro giorni di negoziati (e di occhiaie tremende), siamo andate a riprendere articoli e analisi dei giornali internazionali di una decina di settimane fa, nel mezzo della pandemia da coronavirus. Abbiamo contato parecchie analisi del tipo: ora viene giù l’Europa, ecco il punto di rottura dell’Europa, incombe il collasso dell’Europa. Era accaduto anche in passato, quando è stata rifiutata la Costituzione europea nel 2005, durante la crisi finanziaria nel 2009, all’arrivo dei migranti nel 2015 e con la combo Brexit-Trump nel 2016. I commentatori inglesi sono da sempre i più catastrofisti (alcuni scommettono da tempo sul collasso europeo: così la Brexit diventa salvezza): nel 2012, il Centre for Economics and Business Research, centro studi britannico, stimò le probabilità della fine dell’eurozona al 99 per cento, definendo “politicamente impossibile” la sua sopravvivenza. La pandemia, improvvisa e globale, ha fatto tremare anche gli animi più solidi: frontiere chiuse, regole interne saltate, ogni paese membro pronto a badare a sé prima che a chiunque altro, paese o Unione europea. Quell’innegabile egoismo degli inizi ha però generato un’ambizione di salvezza collettiva che oggi vale 2.640 miliardi di euro – mai visto prima. Ma che cosa alimenta questo persistente catastrofismo?
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