Ma quanto costa piazzare la propaganda cinese sui giornali italiani?
Così, dietro alla ricompensa di click e visualizzazioni gratuite, i media cinesi veicolano il loro messaggio
Roma. Fare propaganda è un mestiere difficile. Servono soldi, tempo, credibilità, un esercito di bot intelligenti – cioè di finti utenti dei social network che aiutano a irrobustire le visualizzazioni. Il mestiere della propaganda è un po’ più facile da quando l’editoria è in crisi ed è ancora più facile per la Cina, che ha parecchi soldi da spendere e ha capito come veicolare i suoi messaggi.
Secondo un’inchiesta di fine luglio del Monde, la pagina Facebook della China Central Television (Cctv), l’emittente nazionale cinese, è il media in lingua francese più popolare del paese, con più di 20 (venti!) milioni di follower, dopo ci sono il Monde ( 4,6 milioni di mipiace) e il Figaro (3,2 milioni). Gran parte dei follower sono bot, ma ogni post pubblicato viene premiato dall’algoritmo per via numero di visualizzazioni e condivisioni – senza contare la buona fede degli utenti, che vedono un media ufficiale così tanto condiviso e quindi per forza attendibile. La Cctv non ha un canale in lingua italiana, ma la spinta propagandistica da parte della Cina in Italia, negli ultimi mesi, è aumentata. L’ambasciata cinese in Italia ha raggiunto quasi 180 mila follower su Facebook (quella americana ne ha 72 mila) e pubblica tutto in italiano. Ma il problema più grande sui media resta la lingua: di cinesi che scrivono in italiano ce ne sono pochi, così come pochi sono i media cinesi tradotti in lingua italiana. E allora ecco l’idea: alcune associazioni pro-Cina in Italia danno ai giornali online articoli pronti, in italiano, praticamente traducendo le notizie ufficiali dei media statali. E lo fanno pure pagando lo spazio virtuale concesso, ma senza il necessario avviso di “articolo a pagamento”. Il Foglio ha parlato con alcune persone che hanno ricevuto questo tipo di offerta, che poi sono state rifiutate. Il modello di business sembra molto simile a quello intrapreso dalla versione online del Giornale: se da un lato il quotidiano cartaceo è su una posizione molto anti-cinese – in linea con quella di Silvio Berlusconi – il sito internet pubblica periodicamente articoli di Cinitalia, a cura della sezione italiana di Radio Cina Internazionale, l’emittente radio della China Media Group di Shen Haixiong. Il gruppo, nel marzo del 2019, in occasione dell’ingresso italiano nella Via della Seta, ha firmato memorandum d’intesa con la Rai, con Class editori, e ha una partnership con TgCom24. Accordi che magari non influiscono sul lavoro giornalistico, ma che fanno inconsapevolmente da megafono alla visione del mondo con caratteristiche cinesi. In certi articoli si fa riferimento alla detenzione di massa degli uiguri nello Xinjiang, per esempio, come di una “necessità” per “estirpare il terrorismo”. Il tono celebrativo nei confronti della Cina è lo stesso che usa Grillo sui suoi post dal 2019.
Diverso è il metodo della Cctv: l’emittente mette a disposizione di moltissimi media nel mondo le sue immagini, e a differenza delle grandi agenzie di stampa lo fa gratuitamente (indovinate perché). Oltre ai video di cronaca, che spesso vengono usati dai giornali online, anche i più autorevoli e internazionali, per illustrare articoli magari anche molto critici sulla Cina, alcuni dei prodotti che si trovano sulla piattaforma non sono solo girati, ma video montati ad arte, con musichette, interviste, insomma prodotti già confezionati. Quasi sempre quelli promossi di più sono i prodotti di propaganda che non vuole nessuno. Il giornale più sovranista d’Italia, la Verità, che ha una posizione decisamente anticinese, sin da febbraio sul suo sito ha pubblicato almeno una quindicina dei video di propaganda di Cctv, da “il caos a Hong Kong visto da Pechino” a “Xi Jinping visita gli agricolti del Jilin”. Senza contestualizzazione, senza commento, se non quello originale cinese. Sono visualizzazioni e click gratis, certo, ma veicolano un messaggio.
La propaganda cinese in Italia è un problema, e lo abbiamo visto nel caso dei video manipolati con l’hashtag #ForzaCinaeItalia all’inizio della pandemia (quando la maggior parte degli italiani ha creduto davvero che gli aiuti ricevuti dalla Cina fossero superiori a quelli ricevuti dall’Ue), ma è già da tempo che si fa strada tra i media italiani. L’ambasciatore cinese in Italia, per esempio, è uno dei pochi a firmare quasi una volta al mese una lettera-editoriale sui principali quotidiani d’Italia, senza domanda e risposta o un apparente contraddittorio. Ma c’è soprattutto quello che Beppe Grillo nel febbraio del 2018 – cioè prima di essere folgorato sulla Via della Seta – descriveva sul blog “la capacità di influenza che la Cina sta acquistando insieme alle nostre società”. Vuol dire: business. Nel marzo del 2019 l’Ansa, la principale agenzia italiana, cioè fonte primaria per il mestiere del giornalista, ha firmato un accordo con l’agenzia statale cinese Xinhua che prevedeva niente di più che la traduzione delle notizie cinesi. Dopo un po’ di polemiche legate al caso, l’agenzia è stata costretta a mettere sotto ai lanci l’avviso: responsabilità editoriale di Xinhua. Una questione economica slegata dal lavoro redazionale, visto che da sempre l’Ansa è considerata tra le più autorevoli fonti d’informazione sulla Cina. Eppure resta un problema: avere una linea coerente nei confronti di un tema di politica estera importante fa parte dell’autorevolezza di un prodotto editoriale, ed è per questo che molti giornali stranieri, negli ultimi anni, hanno deciso di interrompere tutte le collaborazioni con i media cinesi.