Milano. Intervenire, è impossibile ignorare. Oppure: intervenire è impossibile, ignorare. Mosca in queste ore sta decidendo dove mettere la virgola nell’equazione bielorussa, cercando di individuare il male minore nel collasso del regime. Nonostante Lukashenka abbia millantato l’imminente aiuto russo, e varie fonti segnalino strani movimenti di truppe al confine con la Bielorussia, la decisione non è ancora stata presa, e intorno al Cremlino è in corso una battaglia tra falchi e colombe, con ballon d’essai su Twitter, teorie complottiste su Telegram e intensi negoziati tra vari clan russi e bielorussi, conditi da una dose enorme di paranoia. Nessuno si fida di nessuno, ma soprattutto nessuno si fida più di Lukashenka. Il dittatore bielorusso è finito nella trappola di Gheddafi: in 26 anni è riuscito a ingannare tutti, e ora nessuno lo riconosce come un “nostro figlio di puttana”. Putin non gli perdona il rifiuto di unire il suo paese alla Russia e i continui ricatti su gas e petrolio. I falchi russi lo considerano inaffidabile e inefficiente (difficile dare loro torto), e troppo propenso a corteggiare l’occidente. Ma soprattutto non gli perdonano l’arresto, alla vigilia delle elezioni, dei mercenari russi della compagnia Wagner, e la minaccia di consegnarli all’odiata Ucraina. Alla fine sono stati restituiti a Mosca, che ora denuncia maltrattamenti e percosse dei suoi agenti.
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