Bamako, capitale del Mali, martedì si è svegliata al suono dei kalashnikov. I colpi, cominciati nella notte di lunedì, sono continuati a rimbombare per buona parte della mattinata, provenienti dal campo di Kati, principale guarnigione dell’esercito maliano a 15 chilometri dal centro città. Qui un gruppo di ufficiali ha deciso di cavalcare l’onda di malcontento popolare che cresce da giugno nel paese, improvvisando un’azione che in poche ore ha portato, senza quasi spargere sangue (si parla di 4 morti e 11 feriti da proiettili vaganti), alla destituzione dell’intero potere esecutivo e alle dimissioni forzate del presidente Ibrahim Boubacar Keita (detto IBK), eletto democraticamente nel 2013 e riconfermato nel 2018. Il copione è quello consueto dei colpi di mano militari in Africa occidentale, e in parte rispecchia il golpe del marzo 2012 del Capitano Sanogo, che portò alla prima elezione di IBK (oltre che al vuoto di potere che permise ai jihadisti legati ad al Qaida di conquistare i due terzi settentrionali del paese): ammutinamento di una parte dell’esercito che s’impossessa del deposito centrale delle armi a Kati e marcia verso la presidenza; ministri e politici della maggioranza arrestati dai golpisti; IBK si rifugia nella sua villa, nel quartiere di Sebenikoro, dove nel pomeriggio viene prelevato dai militari insorti, che respingono una folla inferocita che cerca di introdursi nell’abitazione; sfilate di manifestanti e militari in festa, a cui si aggiungono altre guarnigioni di soldati; caos generalizzato e notizie confuse.
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