Prof. bianca si fingeva di colore. La “Macchia umana” di Philip Roth al contrario
Nell’America di oggi, in cui si denuncia il “privilegio bianco” e il “razzismo sistemico”, irrompe il caso Jessica Krug, la prof della George Washington University specializzata in studi sull’Africa che ha mentito per anni sulla sua identità etnica
Nel romanzo “La macchia umana” di Philip Roth, il professor Coleman Silk in realtà non è ebreo bensì di colore, ma la sua carnagione molto chiara gli ha permesso per anni di mentire sulla propria origine. Nell’America di oggi capita che professori bianchi si spaccino per neri. È il caso Jessica Krug, una professoressa della George Washington University specializzata in studi sull’Africa e la diaspora africana. Ha ammesso di aver mentito sul fatto di essere nera e che in realtà è una donna bianca ebrea. “Ho costruito tutta la mia vita intorno a una bugia”, ha scritto Krug in un posto pubblicato su Medium il 4 settembre.
Non è il primo caso simile. La celebre attivista afroamericana Rachel Dolezal si è scoperto che, in realtà, era bianca. L’America denunciata sotto forma di parodia da Philip Roth è quella degli anni Cinquanta, in cui essere neri non era motivo di orgoglio, ma di vergogna, e si pagava un prezzo. Nell’America di oggi, in cui si denuncia il “privilegio bianco” e il “razzismo sistemico” da parte dei bianchi, qualcuno ha pensato di imboccare la strada più svelta verso l’emancipazione razziale: liberarsi della propria whiteness, fingendosi di colore.
Ma anche qui torna in aiuto Roth. Il professor Silk, docente di Lettere antiche ad Athena, per una frase fraintesa come un commento razzista (la parola spook, il cui primo significato è “fantasma”, ma che in gergo ha anche il senso spregiativo di “negro”), Coleman, non difeso da quella Facoltà di cui era stato la stella, rassegna indignato le dimissioni. Un nero che si fingeva bianco cacciato per una frase interpretata come offensiva nei confronti delle persone di colore. Il politicamente corretto è un gigantesco campo minato.