Così abbiamo perso Hong Kong
Dalla Rivoluzione degli ombrelli del 2014 alla guerriglia urbana dello scorso anno. L’ex colonia inglese schiacciata dalla Cina. Due nuovi libri e la cronaca di un fallimento
S. 22 anni, studentessa. Hong Kong, agosto e settembre 2019 © Nicola Longobardi
L. 25 anni, insegnante. Hong Kong, agosto e settembre 2019 © Nicola Longobardi
È accaduto tutto piuttosto in fretta. A un certo punto il mondo intero, distratto dalla pandemia, si è reso conto di quello che Pechino aveva deciso per Hong Kong: fine delle manifestazioni, fine delle richieste di autonomia e democrazia. L’ex colonia inglese, o per meglio dire, la società che compone quell’unicum asiatico che è (era?) Hong Kong, deve essere assimilata al sistema cinese. Nonostante l’accordo firmato nel 1997 con il Regno Unito durante la cerimonia dell’handover, quando Londra ha riconsegnato a Pechino la sua colonia, stabilisca che Hong Kong avrebbe dovuto essere autonoma per almeno cinquant’anni, la lunga mano del Partito comunista cinese ha progressivamente soffocato certe libertà. Un lungo accerchiamento che viene da lontano, accelerato soltanto negli ultimi mesi dalla determinazione degli attivisti e dei giovani di Hong Kong, che non si sono mai del tutto arresi, nemmeno adesso che la nuova legge sulla sicurezza spaventa tutti.
Un lungo accerchiamento che viene da lontano, accelerato soltanto negli ultimi mesi dalla determinazione degli attivisti
In Europa si è spesso parlato di Hong Kong come di un simbolo caduto e ormai perso, definitivamente nelle mani di Pechino. Ma per capire la progressione di eventi, come siamo arrivati fin qui, Scalpendi editore ha appena pubblicato insieme due volumi. Il primo è un diario degli ultimi mesi in cui Hong Kong è stata libera: “Trenta giorni a Hong Kong” è il titolo del libro di Lisa Jucca, editorialista di Reuters e corrispondente dell’agenzia dall’ex colonia inglese tra il 2014 e il 2017. “Be water. Iconografia di una protesta” è il libro fotografico di Nicola Longobardi, fotoreporter che vive in Asia da un decennio. I suoi ritratti delle proteste di Hong Kong sono finiti sulle copertine di magazine come Courrier International e Nikkei Asian Review (con cui ha vinto il premio Sopa e l’Asian Media Award). Due italiani, due giornalisti che raccontano una delle storie più importanti della contemporaneità – una scrivendo, l’altro fotografando – ma soprattutto entrando dentro alla vicenda, senza guardarla con distaccato interesse di cronaca.
“Trenta giorni a Hong Kong” è il libro di Lisa Jucca di Reuters. “Be water. Iconografia di una protesta” raccoglie le foto di Longobardi
Jucca inizia il suo viaggio più o meno un anno fa, il 22 settembre del 2019, alla fine di un’estate di rabbia da parte dei cittadini di Hong Kong innescata dalla proposta di legge di estradizione verso la Cina. Una legge poi ritirata dal governo locale guidato da Carrie Lam, ma superata qualche mese dopo dalla promulgazione della legge sulla sicurezza: “Da anni ormai ad Hong Kong si assisteva a una lenta erosione dello stato di diritto”, spiega al Foglio Lisa Jucca. “La proposta di legge sull’estradizione ha reso reale la minaccia alla semiautonomia di Hong Kong, e scatenato manifestazioni di massa. L’illusione dei manifestanti è stata di credere di poter cambiare le cose, di sfidare Pechino senza pagarne le conseguenze”. L’insuccesso della protesta pacifica del 2014, la cosiddetta Rivoluzione degli ombrelli, “è alla base dell’atteggiamento più violento di questa nuova generazione di manifestanti”, si legge nel libro. “Se all’inizio dell’estate le grandi manifestazioni di strada erano state essenzialmente lunghe marce pacifiche, una parte dei dimostranti ha scelto successivamente di optare per la via del vandalismo, con azioni sempre più eclatanti, come il blocco dell’aeroporto di metà agosto, nella speranza di forzare la mano all’esecutivo di Hong Kong. Anche le richieste nei confronti del governo, inizialmente focalizzate sul ritiro della proposta di legge per l’estradizione, si sono col tempo ampliate”.
“Esprimere liberamente il proprio pensiero, partecipare a discussioni politiche diventa ora molto rischioso”, dice Jucca
Anche per Nicola Longobardi, che ha fotografato tutti i momenti più violenti degli ultimi mesi a Hong Kong, l’escalation delle proteste va di pari passo con le azioni della polizia: “Il momento più drammatico è stato a novembre”, racconta al Foglio. “E’ iniziato tutto con una serie di proteste che online chiamavano ‘operation at dawn’, operazioni all’alba, nelle quali i ragazzi iniziavano già di prima mattina a bloccare i mezzi di trasporto per impedire alle persone di andare a lavorare. Ma sin dal primo giorno, alle 7 del mattino, nel quartiere di Sai Wan Ho un poliziotto ha sparato a un ragazzo, ed era la seconda volta che si usavano le armi vere. E’ stato un colpo: la volta precedente, il primo di ottobre, era avvenuto durante la giornata, quindi sembrava una conseguenza della tensione che era cresciuta. E invece a novembre il colpo di pistola è partito subito e questo ha fatto montare la rabbia dei manifestanti. Da lì è iniziata una serie di proteste quotidiane: ogni mattina bloccavano Hong Kong, la metropolitana e i mezzi di trasporto non funzionavano più, la città era nel caos. All’ora di pranzo in Central si riversavano in strada centinaia di persone per bloccare l’avanzata della polizia. E durante quella settimana c’è stato l’assedio alla China University of Hong Kong. Quel giorno non sono riuscito ad arrivarci, ma ho visto dei video che circolavano e ho pensato: ok, abbiamo raggiunto l’apice delle proteste”. E invece non era ancora arrivato: “Dopo qualche giorno sono andato al Politecnico e ho visto gli studenti che si preparavano all’arrivo della polizia. Quando nel fine settimana la polizia è arrivata, quella è stata una vera battaglia”, dice Longobardi. Gli studenti si erano barricati nel campus del Politecnico e la polizia aveva intenzione di sgomberarli: cannoni d’acqua, lacrimogeni, molotov, “addirittura frecce lanciate con gli archi, una ha colpito il polpaccio di un poliziotto. E’ stata una battaglia”. Il problema, quel 28 novembre che ha cambiato tutto a Hong Kong, è che la polizia aveva circondato il campus e gli studenti che volevano scappare si trovavano in trappola: “Hanno arrestato più di mille persone quella notte”. La mattina dopo altri manifestanti hanno raggiunto l’area e hanno provato a rompere il cordone della polizia per liberare gli studenti intrappolati all’interno del campus: “Le strade erano completamente bloccate, i marciapiedi divelti per tirare fuori i mattoni, lacrimogeni, un mezzo blindato della polizia che avanzava sparando pallottole di gomma. Sono stati i giorni più intensi e più drammatici”, dice Longobardi.
La tattica della “‘soluzione liquida’ ha trovato i suoi limiti quando il movimento ha provato a fare delle proposte politiche”
Nel corso del suo diario Lisa Jucca incontra vari attivisti – alcuni si espongono, dichiarando il proprio nome e cognome, altri preferiscono restare anonimi, e così succede anche tra gli attivisti della prima linea ritratti dalle fotografie di Longobardi. Man mano che passano i giorni però, a un uso sempre più disinvolto della forza da parte della polizia di Hong Kong (“una novità per la maggioranza degli abitanti”, scrive Jucca) corrisponde un lento affaticamento e un sentimento generale di disillusione degli attivisti: “La legge sulla sicurezza ha posto fine al modello ‘un paese, due sistemi’ su cui si basava la semiautonomia del territorio di Hong Kong”, dice Jucca, “imponendola, Pechino ha voluto chiarire senza ombra di dubbio che Hong Kong è parte integrante della Cina e deve, volente o nolente, rapidamente adeguarsi al modello della Repubblica popolare. Per i residenti, l’annuncio è stato un vero terremoto, seguito da numerosi arresti di attivisti democratici locali. Esprimere liberamente il proprio pensiero, partecipare a discussioni politiche diventa ora molto rischioso visto che la pena massima prevista per chi commette atti giudicati sovversivi è l’ergastolo”. E insomma adesso quella legge fa paura ai più: “Pochi hanno oggi la forza di esporsi in prima persona, anche tra chi, e sono la maggioranza, non desidera l’indipendenza dalla Cina”. Longobardi dice più o meno lo stesso: “Già da qualche tempo incontravo persone diventate quasi paranoiche: mi ricordo una ragazza che un giorno ha pranzato con me e un altro giornalista e per tutto il tempo si guardava attorno. Dopo pranzo siamo andati a prendere la metropolitana per raggiungere una protesta e lei è scesa alla fermata precedente alla nostra. Poi ci ha contattati di nuovo dicendo che non si sentiva a suo agio a stare con due giornalisti stranieri perché era convinta che ci fosse qualcuno che la stava seguendo. Una parte dei manifestanti vive questa situazione in maniera paranoica. Ma in generale la legge sulla sicurezza ha depresso molto gli animi. Ed è arrivata nello stesso periodo dell’epidemia, quindi con le nuove regole sul distanziamento sociale. Molti ragazzi vorrebbero continuare a manifestare ma ormai sono veramente pochi. Non so se una volta finita la pandemia la gente tornerà a protestare”. Sui social continuano i dibattiti, ma anche quelli si sono molto ridotti: tanti attivisti hanno cancellato i loro account, o si sono disiscritti dai gruppi di Telegram: “Fa molta paura questa legge”.
La situazione di Hong Kong è cambiata definitivamente, e l’occidente ha forse capito troppo tardi quel che stava accadendo: “Le diplomazie occidentali hanno per lo più sorvolato sia sulla protesta degli ombrelli del 2014, che aveva grandi ambizioni democratiche, sia sulla più violenta contestazione del 2019”, dice al Foglio Jucca. “Ma non hanno potuto ignorare l’imposizione della legge sulla sicurezza nazionale, che di fatto anticipa dal 2047 a oggi la fine della semiautonomia di Hong Kong. L’ex colonia è diventato il cuore del conflitto geopolitico che contrappone America e Cina, e si trova schiacciata tra le due superpotenze. Misure come la decisione americana di non considerarla più come territorio commercialmente distinto dalla Cina danneggiano più Hong Kong, che sta attraversando una profonda crisi economica, che la Repubblica popolare”. Ma non c’è solo la politica internazionale. Anche tra i manifestanti “di errori in questa storia ne sono stati fatti diversi”, dice Longobardi, “uno fra tutti è stato quello di non avere una rappresentanza. La tattica del ‘Be Water’, che era il nome con cui i manifestanti si organizzavano ispirandosi alle parole di Bruce Lee, era ottima in strada, quando dovevano affrontare la polizia, ma la ‘soluzione liquida’ trovava i suoi limiti quando il movimento doveva portare avanti delle proposte. Non c’erano le basi per un dialogo”. L’altro errore, secondo Longobardi, “è stato quello di chiudersi dentro l’università. Così hanno perso la loro forza, che era quella di sapersi spostare sul territorio continuamente. Scatenare un confronto con la polizia è stato un errore tattico. E una parte parecchio rumorosa dei manifestanti ha sbagliato, inoltre, a sentirsi diversa dai cinesi della Repubblica popolare. Un sentimento di alterità che c’è soprattutto nelle fasce molto giovani dei manifestanti: gli anziani del movimento democratico avrebbero dovuto far passare il messaggio originale, quello non di un’indipendenza e di una separazione, ma quello di esportare il modello Hong Kong al resto della Cina”. Un errore di comunicazione, secondo Longobardi, che ha fatto passare il movimento come indipendentista: “C’è una parte dei manifestanti che la pensa così, ma è una minoranza di quelli che andavano in piazza”. E che forse, domani, passata la pandemia, non lo faranno più.