Con l’ultima sua trovata sulla Brexit – rivedere unilateralmente l’accordo siglato dal Regno Unito con l’Unione europea attraverso una legge nazionale inglese che contraddice quel che era stato negoziato e deciso insieme – Boris Johnson si è trovato di fronte all’ennesima frattura dentro al Partito conservatore, dopo aver ottenuto quel che nessuno prima di lui, in questi quattro anni di tormenti, era riuscito a conquistare: l’unità, la maggioranza solida, il peso politico. Ieri il premier britannico ha convocato i parlamentari, ha spiegato la sua tattica negoziale (in sintesi: portare la controparte all’esaurimento, prenderla per stanchezza), ha sbandierato questo suo peso politico come un trofeo, ma non soltanto ha argomentazioni poco solide (abbiamo avuto troppa fretta a novembre, sostiene), ha soprattutto un buco grosso nel suo bilancio di credibilità già miserello. Di fatto Johnson ha siglato l’accordo sulla Brexit a novembre tenendo le dita incrociate dietro la schiena: allora gli serviva mostrare che lui sì che le cose le ottiene – Brexit done – ma si riservava, senza dirlo, la possibilità di ripensarci.
Ora, sul diritto di cambiare idea il Regno Unito ha riflettuto molto e con grande dolore: quel diritto era alla base della campagna del People’s Vote, il movimento che voleva che tutto il paese si interrogasse sul proprio eventuale ripensamento e poi comunicasse in un altro referendum l’esito della riflessione. Non si trattava soltanto di una campagna anti Brexit: in quel modo tutti quanti, inglesi e osservatori esterni, avevano la possibilità di calcolare cosa volesse dire, nella politica e nella società, ammettere un errore, ammettere di aver dato un voto di pancia e non di testa, trovare un punto di equilibrio in dinamiche personali e collettive squilibrate. Era la seconda chance, roba rara. L’occasione non si è presentata, la riflessione è stata fatta soltanto in parte, ma ora che si ripresenta, in una forma molto diversa, un ripensamento gigantesco, i parlamentari inglesi si ritrovano ancora di fronte allo stesso dilemma, perché molti di loro avevano votato entusiasti e sbruffoni l’accordo siglato dal loro Boris Johnson, e poi erano andati dai loro elettori a raccontare che finalmente il paese poteva pensare a se stesso, era libero di prosperare nel mondo. Ora che fanno, questi tapini, si rimangiano la parola con il loro Boris Johnson? Più in generale: si pagano queste giravolte al limite della pirateria politica?
La domanda non riguarda soltanto Westminster o quell’affare complicato e sfinente che si chiama Brexit. L’improvvisazione che caratterizza oggi molte leadership mista a una certa ignoranza (nel merito: il confine tra Irlanda e Irlanda del nord, questione irrisolta nella teoria e nella pratica perché è lì che le fantasie brexitare precipitano tutte insieme) fa sì che i negoziati, i voti, il sostegno non siano dettati da un qualche principio di fattibilità e nemmeno dalla vituperata coscienza, ma dall’impossibilità di fare come fanno gli altri – gli avversari, gli oppositori – perché sarebbe un tradimento, un passaggio al nemico. Vale tutto, purché difendi la tua parte, vale bersi del disinfettante per curare il Covid, vale liquidare l’avvelenamento di un rivale politico come un caso di isteria collettiva, vale firmare un accordo (ci sono voluti tre anni, accidenti) e poi ignorarlo, per non parlare delle bugie pianificate, quelle che certi capi politici dicono scommettendo su distrazione e impunità. Chissà se c’è un limite massimo, nella pancia degli elettori, di parole rimangiate ingurgitate.
Abbonati per continuare a leggere
Sei già abbonato? Accedi Resta informato ovunque ti trovi grazie alla nostra offerta digitale
Le inchieste, gli editoriali, le newsletter. I grandi temi di attualità sui dispositivi che preferisci, approfondimenti quotidiani dall’Italia e dal Mondo
Il foglio web a € 8,00 per un mese Scopri tutte le soluzioni
OPPURE