La potenza europea post Covid
L’architetto dell’europeismo macroniano spiega come si rilancia l’Ue in termini pratici e di valori. Le parole chiave sono tre: indipendenza, cultura e identità
Pubblichiamo alcuni stralci del piccolo saggio che Clément Beaune, sottosegretario per gli Affari europei francese, ha pubblicato su Politique étrangère, la rivista dell’Institute français des relations internationals. Apoche settimane dallo storico accordo economico deciso dal Consiglio europeo il 21 luglio 2020, sarebbe fin troppo semplice dire che il Covid-19 ha cambiato tutto nell’Unione europea seguendo un principio che viene spesso evocato: “Ci vuole una crisi per far agire l’Europa”. Come con tutti i cliché, c’è del vero in questa affermazione. Il piano di debito condiviso è il più grande passo in avanti nel processo di integrazione europea dalla creazione dell’euro, e sarebbe stato impossibile attuarlo senza questa crisi. Questo processo è dovuto in parte a una dinamica meno ovvia, ovvero il ritorno di un triangolo d’oro – composto da Francia, Germania e una Commissione europea ambiziosa – il cui impatto non era mai stato così forte dagli anni Novanta. L’Ue deve accettare il fatto che le aspettative dei cittadini riguardo all’Europa siano cresciute ultimamente – un aspetto a lungo sottovalutato. L’Ue viene criticata non tanto per le sue interferenze nei temi di competenza nazionale ma piuttosto per la sua incapacità di agire su alcune minacce comuni. In passato si trattava di immigrazione, oggi di sanità: dalla mancanza di misure europee sulla quarantena alla ricerca comune per un vaccino. Oggi i cittadini si aspettano che l’Europa si faccia carico di questi problemi, e la criticano quando non agisce, lo fa in modo insufficiente o con ritardo. La crisi del Covid ha anche dimostrato che l’efficacia dell’Ue sembra legata alle sue competenze: è reattiva in ambito economico (sospensione delle regole di bilancio e degli aiuti di stato, sostegno monetario su larga scala) ma piuttosto debole nel coordinamento della chiusura dei confini e praticamente inesistente sugli aspetti sanitari della crisi. Probabilmente se il Regno Unito fosse stato ancora membro dell’Ue, gli accordi sul bilancio e sul piano per la ripresa non sarebbero stati raggiunti nella loro forma attuale. Questi tre aspetti – la necessità di un approccio europeo condiviso, le aspettative dei cittadini e la ritrovata importanza del motore franco-tedesco – formano la base di un progetto europeo che deve rivedere i suoi metodi e la sua sostanza per diventare una potenza ferma, reattiva e influente nel mondo. Ci comportiamo spesso come l’imperatore cinese nelle “Novelle orientali” di Marguerite Yourcenar, che scopre che il mondo reale è diverso dal mondo orientale descritto nelle opere magnifiche dell’anziano pittore Wang-Fô. Per questa riscoperta, partiamo dal metodo europeo del presidente Macron (…) E’ basato sulla combinazione di tre aspetti (...), indipendenza, potere e identità. La prima convinzione è che l’indipendenza francese nel mondo deve avere una dimensione europea. Oggi questo rafforzamento della Francia attraverso l’Europa ha assunto una dimensione globale. Come fanno a essere sviluppati i settori industriali strategici, dalle batterie elettriche alle medicine essenziali, se non attraverso un’autonomia europea? Come fa un singolo paese a negoziare gli accordi commerciali che governano la globalizzazione? Il Regno Unito sta imparando che non è così semplice. E’ ingenuo credere che gli stati nazionali non abbiano alcun potere così come lo è credere che il progetto europeo non serva alcuno scopo. Dopo tutto, Singapore, Israele e la Corea del sud godono di un grande successo a livello globale. Ma spesso si sottovaluta il fatto che questi paesi sono aperti al resto del mondo, in senso sia economico sia geopolitico. Dunque è paradossale sostenere la tesi di una Francia sovrana indicando come esempi alcuni paesi che non riuscirebbero a sopravvivere senza un mercato globale aperto e una protezione strategica esistenziale (solitamente fornita dagli Stati Uniti). Se l’indipendenza è mirata a garantire protezione dai rischi sia interni sia esterni per l’Europa, attraverso la cooperazione, il potere di un paese ha molto a che fare con la sua proiezione esterna. Più di ogni altro stato europeo, la Francia vuole avere un impatto globale sia per ottenere i suoi interessi sia per perseguire alcune convinzioni. Infine, il concetto di identità e sovranità non deve essere appannaggio degli anti europeisti (…). Dato che l’Europa non è stata creata nel 1950, non può essere considerata come un’invenzione tecnocratica o una semplice costruzione razionale. E’ storia, cultura, identità e diversità (…) Il modello europeo cerca di trovare l’equilibrio sempre instabile tra l’apertura verso gli altri e l’auto protezione: l’Europa ha inventato trattati e confini, mercati e regole. L’equilibrio è la definizione di questo modello unico al mondo: una combinazione di libertà individuale e solidarietà di gruppo, unità culturale e diversità locale (...). Questi fattori – indipendenza, cultura e identità – formano la nostra idea di sovranità europea, che viene spesso fraintesa dai nostri partner. La sovranità è essenzialmente l’abilità di difendere e salvaguardare i propri interessi e valori, una cosa che l’Europa non osa fare senza avere un senso di umiltà legato al suo passato coloniale, il collasso causato dalle guerre mondiali e le esperienze totalitarie. Tuttavia, l’Europa “geopolitica” teorizzata da Ursula Von der Leyen è il vero tema dei prossimi dieci anni: esistere sulla mappa o essere sottomessi alle leggi degli altri. (...) L’Europa politica è stata concepita come un progetto interno mirato alla riconciliazione ma oggi necessita di cinque caratteristiche essenziali per qualsiasi comunità politica duratura e assertiva: confini sicuri, istituzioni funzionanti, un’agenda ambiziosa e un senso di appartenenza. Alla sua nascita, l’Europa non ha mai dovuto affrontare il tema dei confini perché era concentrata sulla sua ricostruzione economica e politica e di fatto delimitata dalla Guerra fredda. Tre evoluzioni hanno reso la questione essenziale: l’espansione territoriale dell’Europa che ha reso il suo lavoro più complesso; le crescenti tensioni con la Turchia; la crisi migratoria che ha dimostrato che la gestione dei confini deve essere una priorità per l’Ue. Definire i confini non significa chiudere una società ma piuttosto organizzare il suo rapporto con il mondo esterno. Questo è precisamente ciò di cui hanno bisogno gli europei. Per l’Ue è essenziale avere una politica estera ambiziosa e distinta dalla politica di allargamento (…). L’allargamento deve essere necessariamente condizionato a una riforma del modus operandi dell’Ue dato che i confini e le istituzioni sono fortemente legati (...). Un progetto politico necessita di confini ma anche di una leadership forte. L’Europa non può essere accusata di non avere alcun interesse per le istituzioni, che sono la sua passione. I dibattiti sui trattati hanno segnato la vita bruxellese per settanta anni. Ma la sfida oggi è quella di riesaminare la materia in modo pragmatico e con un approccio semplice, ovvero una struttura istituzionale unica e alcuni formati differenziati (...). In un’Europa a ventisette stati servono delle “squadre progettuali”, a seconda delle materie. Significa che è assolutamente necessario “parlare con tutti”. Questo potrebbe semplicemente portare ad alleanze temporanee per portare avanti una certa idea. Ad esempio la scorsa primavera la Francia ha messo insieme prima quattro e poi nove paesi, la Germania è entrata in corsa d’opera, per adottare le emissioni zero in Europa entro il 2050. Questo potrebbe però anche portare a una maggiore cooperazione nel lungo termine, che si è vista spesso nella storia europea, dalla creazione dell’area Schengen all’euro e oggi alla difesa. Potrebbe sembrare un paradosso, ma la condizione per raggiungere questa differenziazione è quella di mantenere una struttura istituzionale unica: una sola Commissione, un solo Consiglio, un solo Parlamento, una sola Corte di giustizia e una sola Banca centrale. Questa struttura potrebbe essere più flessibile per consentire una maggiore differenziazione (...). Altre due riforme istituzionali sono essenziali per aumentare l’efficacia del processo decisionale nell’Ue a ventisette. Primo, bisogna ridurre le dimensioni della Commissione europea dato che il principio attuale secondo cui ogni stato membro ha un commissario non garantisce la coesione di cui ha bisogno un esecutivo atipico e dunque fragile. Inoltre questa caratteristica non alimenta lo spirito europeo che è essenziale a definire un interesse comune, dato che ogni capitale vede il suo commissario come il suo portavoce e protettore. Secondo, bisogna mettere fine al principio di unanimità nelle aree in cui sussiste, come la tassazione. Questo metodo è giustificato solo per le materie di natura costituzionale come l’allargamento, la modifica dei trattati e, in misura minore, il bilancio e le sue risorse. (…) In pratica tre diverse Europa si stanno formando all’interno dell’Ue, lungo le linee aree di cooperazione. La prima è un’Europa di valori e di mercato, che corrisponde alla fondazione della comunità europea negli anni Cinquanta. Questa è l’Europa a ventisette stati che occasionalmente coinvolge i suoi vicini. In termini geografici corrisponde al mercato unico, all’area Schengen (in realtà la logica del mercato unico non può essere distinta dalla libertà di movimento) e all’Eurozona, che è in via d’espansione e corrisponde a gran parte dell’Ue dopo la Brexit. All’interno di ciò, sta prendendo forma “un’Europa della difesa e della sicurezza” che prende spunto dall’European intervention initiative lanciata nel 2017 dal presidente francese. Questa strategia andrà ripensata alla luce della Brexit, dato che abbiamo molti interessi comuni con la Gran Bretagna in questo campo. Questo è il senso della proposta di Macron e Merkel per creare il Consiglio europeo della sicurezza, inteso come un organo di coordinamento con il Regno Unito nel campo della politica estera e di sicurezza (i suoi membri dovrebbero avere posizioni condivise e adottare sanzioni comuni). (...) Per dare il via ai progetti europei non dovremmo aspettare che tutti siano d’accordo. L’Europa deve ritornare a prendere l’iniziativa. I paesi che vanno avanti trascineranno quelli che attendono; questa è una regola consolidata all’interno dell’Ue. Le istituzioni devono agevolare il progetto europeo, rendendolo più flessibile, anziché rappresentandolo solamente. Solo una coppia resta necessaria e deve farsi carico delle responsabilità: la base franco-tedesca. Questo è lo spirito della Conferenza sul futuro dell’Europa, che dovrebbe iniziare nell’autunno 2020 durante la presidenza tedesca del Consiglio e concludersi nella primavera del 2022 durante la presidenza francese (...). La più grande novità per l’Europa è sviluppare una power agenda. Questa idea si è diffusa rapidamente negli ultimi tre anni, animata dalle proposte francesi, da un graduale avvicinamento della Germania e dai contraccolpi dello scontro tra America e Cina. L’Ue negli ultimi anni ha agito come mediatore negli affari internazionali, mantenendosi equidistante dall’America e dalla Cina. Paradossalmente questo atteggiamento è stato condiviso da alcuni paesi dell’Europa dell’est che pur essendo molto legati al rapporto transatlantico hanno rifiutato di scontrarsi con la Cina. Tuttavia, scegliere sistematicamente l’equidistanza non è l’approccio di una potenza. Il commercio è l’esempio migliore. La commissione precedente avrebbe dovuto stabilire un’agenda condivisa con il presidente Trump fin dal momento della sua elezione per riformare l’Organizzazione mondiale del commercio riconoscendo che, pur non condividendo lo stile e il metodo, Bruxelles ha la stessa posizione di Washington riguardo all’atteggiamento aggressivo e anti competitivo della Cina. L’Ue ha evitato l’argomento, patendo sia la rivalità commerciale con Pechino sia i dazi imposti dagli Stati Uniti, e allo stesso tempo firmando accordi commerciali con tutte le altre potenze disponibili (Canada, Vietnam, Mercosur, etc.). Al contrario l’Ue non dovrebbe vergognarsi di lavorare a fianco della Cina sul clima dato che gli americani si sono tirati indietro dall’accordo di Parigi. Scegliere le proprie battaglie e partner posizionandosi in un chiaro quadro concettuale (autonomia europea, rapporto speciale con gli Stati Uniti, cooperazione con altri paesi a secondo delle circostanze) è l’essenza della strategia di una potenza, sempre guidata dalla difesa dei propri valori e interessi. Come punto di partenza l’Ue deve identificare la sua forza. La sua risorsa principale resta il mercato interno, il più grande al mondo, che rappresenta 450 milioni di persone (...). Questo è il motivo per cui rafforzare il mercato interno, ad esempio armonizzando le leggi che riguardano le aziende, le norme sulle banche e sulla finanza, o le regole delle maggiori piattaforme digitali, non è un progetto obsoleto ma una priorità per ottenere maggiore crescita e competitività. (...) Un altro tema che viene spesso ignorato o trattato con sufficienza riguarda la demografia. Entro il 2050 l’Ue sarà probabilmente l’unico blocco regionale con una popolazione inferiore a oggi. La demografia è uno strumento obsoleto? Ovviamente no, dato che il declino demografico condanna le società a un inevitabile arretramento, a causa della mancanza della verve dei giovani e il timore di una estinzione imminente. L’Europa mostra già questi segnali. Il successo dei movimenti ultra conservatori e nazionalisti nell’Europa dell’est è in parte dovuto all’esodo dei giovani. Le politiche della famiglia sono nazionali, e dovrebbero rimanere tali finché riguardano dei modelli locali. Ma come ha sottolineato il presidente francese a Cracovia il 5 febbraio 2020, l’Ue potrebbe fornire un sostegno finanziario ai progetti demografici degli stati membri, in sintonia con i suoi valori comuni in particolare per quanto riguarda la parità di genere. Nessun progetto politico e nessuna comunità può continuare a credere nel futuro senza possedere un’identità condivisa. Non è un lusso o un capriccio europeista, specialmente considerando che le fondamenta di questa identità comune sono radicate nell’architettura, nella letteratura, nella lingua e nei luoghi. Ignorando questo patrimonio, l’integrazione europea è diventata fredda ed è stata facilmente condannata dai suoi detrattori come una macchina burocratica. Nessun cittadino europeo è stato persuaso da una dimostrazione economica dei benefici dell’euro. Personalmente, il sottoscritto è stato convinto dalla politica e dalla storia durante un viaggio a Berlino poche settimane dopo la caduta del Muro: l’Europa significa speranza. Altri sono stati persuasi dalla storia familiare, dalla condizione di frontalieri, dalla letteratura, dai finanziamenti europei per un progetto o dalla convinzione che il mondo non possa essere dominato da un condominio composto dagli Stati Uniti e dalla Cina. (...) L’Europa è sopravvissuta a un decennio di crisi, e ha compreso l’inevitabilità di trasformare un’area geografica in una potenza. L’obiettivo non è quello di creare un “super stato” europeo o negare le differenze nazionali. Al contrario, l’Ue troverà la sua forza e leadership enfatizzando le sue differenze. Quando la Francia gestisce l’assistenza europea in Libano, fa qualcosa di normale, e quando la Spagna coordina la risposta alla crisi in Venezuela fornisce all’Europa un’opportunità di affermare se stessa. L’Ue troverà la forza di proiettare la sua influenza secondo questo modello originale a patto che ricostruisca il suo quadrato magico composto da confini sicuri, istituzioni funzionanti, una power agenda e un senso di appartenenza. E l’Ue avrà bisogno di ciò che dà forza a ogni potenza: la consapevolezza che durerà. La conferenza sul futuro dell’Europa deve proporre questa visione.
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