Roma. Due anni fa in Armenia la rivoluzione di velluto sembrava avesse aperto scenari nuovi per il Nagorno-Karabakh, la regione caucasica che dagli anni Novanta è contesa all’Azerbaijan. “Abbiamo un autentico desiderio di risolvere il conflitto in modo pacifico”, aveva promesso Nikol Pashinyan, premier progressista e leader delle proteste che avevano rovesciato il precedente sistema di governo, corrotto e autoritario. Oggi pare che le cose siano andate diversamente. A distanza di oltre 30 anni, il Nagorno-Karabakh, sia in Armenia sia in Azerbaijan, resta una priorità. Nell’enclave di lingua armena, inglobata nel territorio azero, da cinque giorni è ricominciato il lancio di missili e i droni hanno ucciso un numero imprecisato di persone. Che il clima lungo il confine non fosse cambiato si era capito già lo scorso luglio, quando il cessate il fuoco cominciava a essere violato. Allora, molti giornali erano stati incuriositi dal caso della moglie del premier armeno, Anna Hakobyan, fotografata nel Nagorno-Karabakh con mimetica e kalashnikov mentre partecipava a un’esercitazione militare di sole donne. “Donne per la pace”, avevano chiamato l’addestramento – non senza una certa ironia.
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