Operazione Senato
I dem americani devono confermare i loro seggi e vincerne altri quattro per togliere la maggioranza ai repubblicani. Gli stati in bilico, gli sms all’amante e i tormenti del trumpismo
Se si presentasse Mefistofele al quartier generale del Partito democratico americano e chiedesse, tra fiamme e odor di zolfo, di scegliere una vittoria tra Senato e presidenza quale sarebbe la risposta? Certo, la presidenza è la presidenza, ma senza l’appoggio del Senato qualsiasi presidenza è disarmata, spuntata, più innocua. Un ipotetico presidente Joe Biden potrebbe avere meno margine di manovra senza il Senato dalla sua parte e, allo stesso modo, un ipotetico bis di Donald Trump sarebbe reso più inoffensivo da un Senato democratico. Poniamo quindi il caso che davanti a Mefistofele i democratici scegliessero il Senato, bevendo l’amaro calice di un bis di Trump ma con la consapevolezza di poterne disinnescare ogni iniziativa, preferendo questa strada a quella di una presidenza Biden resa monca da un Senato repubblicano (si tratta di ipotesi: i democratici ovviamente aspirano a prendere tutto, la presidenza e il Senato. I numeri dei sondaggi dicono che si può fare, e soprattutto dicono che la faccenda Senato è più percorribile di quella della presidenza. Non c’è, al Senato, l’annosa questione dei grandi elettori, non c’è l’annosa faccenda degli swing state, non c’è, al Senato, alcuna seria paura di interferenze estere, di voti taroccati o altro.
Al Senato è più semplice: vince chi vince. Le cose, per il Campidoglio, funzionano così: ogni stato, indipendentemente da quanto sia grande o popoloso, esprime due senatori. Questi due senatori restano in carica sei anni e non vanno (quasi mai) a elezioni insieme, ma sempre sfalsati, di modo che il Senato non si azzeri mai del tutto, ma che si rinnovi ogni due anni solo per un terzo. Un modo, questo, escogitato dai padri costituzionalisti per evitare scossoni e garantire continuità, anche nel caso di infatuazioni passeggere per questo o quel partito. Così, il prossimo novembre, ad andare a elezioni saranno 35 seggi su 100: 33 perché sono arrivati a scadenza naturale, e due perché sono oggetto di elezioni speciali, uno in Georgia (dopo le dimissioni, per ragioni di salute, del senatore repubblicano Johnny Isakson), l’altro in Arizona (per sostituire il mai abbastanza compianto John McCain).
Al momento, in Senato c’è una risicatissima maggioranza per i repubblicani (53 a 47), ai democratici sarebbe sufficiente confermare i seggi che già hanno e vincerne altri quattro per ribaltare le cose. I numeri dicono che si può fare. Perché, stando ai sondaggi, i democratici dovrebbero confermare tutti i loro senatori, tranne uno (Doug Jones, eletto nel repubblicanissimo Alabama più per caso che per altro), e vincere tutti quelli degli stati in bilico (una decina). Sì, perché, al solito, trattandosi di elezioni americane, c’è un’ampia fetta di stati che sono considerati sicuri per l’uno o per l’altro partito, e che dunque escono dal conto delle sfide elettorali reali. Non ci sono dubbi, per esempio, in merito al fatto che il repubblicano Mitch McConnell sia confermato in Kentucky o che il democratico Dick Durbin vinca in Illinois; in Arkansas, per dire, contro il senatore uscente repubblicano Tom Cotton, i democratici non hanno neppure presentato un candidato e in Delaware, stato di Joe Biden, le possibilità di vittoria dei repubblicani sono così basse che il partito ha scelto di presentare Lauren Witzke, candidata dichiaratamente terrapiattista. Così, come al solito, i giochi si fanno in una manciata di stati in bilico.
La grande novità di queste elezioni 2020, però, è che, verosimilmente per effetto del trumpismo e della disaffezione che suscita in molti elettori moderati, molti degli stati che oggi sono considerati contendibili fino a quattro anni fa erano considerati repubblicani fino al midollo, almeno per il Senato – posti nei quali, per le elezioni a senatore, non c’era partita. E’ il caso, per esempio, del Maine: uno stato che, alle presidenziali, vota per lo più democratico (l’ultimo candidato repubblicano a vincere qui è stato Bush padre, nel 1988), ma che al Senato dal 1996 vota per Susan Collins con percentuali superiori al 60 per cento. La ragione di questo rapporto personale tra la Collins e i suoi elettori era il suo essere una battitrice libera, una che in aula si faceva guidare dal suo giudizio e non dall’ideologia o dagli ordini di scuderia; una, per intenderci, che in 24 anni da senatrice ha votato per il 40 per cento delle volte contro i desiderata del suo partito e che, nel 2016, ha dichiarato di non aver votato per Trump alle elezioni. Negli ultimi quattro mesi, però, questa sua autonomia è risultata indigesta e il partito ha messo la senatrice di fronte a un bivio: o si allineava alla linea di Trump o avrebbe potuto dire addio ai fondi per la sua campagna elettorale. Seppur recalcitrante, Collins ha scelto, mese dopo mese, voto dopo voto, di seguire la linea, anche a costo di perdere il suo compatto elettorato. Il risultato è che ora, per la prima volta dal 1996, i democratici potrebbero sconfiggerla. Un altro seggio che per anni è stato off limits per i democratici, ma che ora invece appare a portata di mano è quello di John McCain, in Arizona.
McCain, nel suo stato, era considerato un supereroe (con una storia da prigioniero in Vietnam degna di un film e con una serie di scelte politiche controcorrente che lo hanno reso estremamente popolare e rispettato) e vinceva le elezioni con percentuali stellari (il massimo fu il 76 per cento nel 2004). E’ morto nel 2019, e aveva passato gli ultimi mesi della sua vita a fare barricate con tutte le sue poche forze contro Trump e il trumpismo. Per questo, oggi, il messaggio che hanno in testa i suoi elettori è di votare qualsiasi cosa nuoccia a Trump e al suo partito. Per giunta il candidato democratico è Mark Kelly, un’altra specie di supereroe: astronauta (noto ai più come “l’astronauta gemello”, visto che lui e suo fratello Scott sono stati studiati per vedere l’effetto dei viaggi spaziali su due organismi identici), molto popolare e, per giunta, marito di Gabby Gifford, la deputata che fu quasi uccisa da un folle che aprì il fuoco durante un suo comizio.
Poi c’è uno stato solidamente repubblicano come l’Alaska (l’ultimo candidato dem alla presidenza a vincere qui è stato Lyndon Johnson) che però potrebbe voltare le spalle al senatore repubblicano uscente Dan Sullivan, perché gli elettori sono esasperati dalle politiche (non) ambientali avviate dal governo Trump. Oppure c’è la Georgia, altro posto nel quale i democratici hanno vita difficile, ma che questa volta potrebbero spuntarla. Lo stato, va detto, fa eccezione, perché è l’unico a portare al voto entrambi i suoi seggi, uno perché arrivato a scadenza naturale, l’altro perché il senatore titolare si è dimesso. Su un seggio (quello che va a elezioni speciali) sembra che la vittoria del candidato repubblicano sia sicura, ma sull’altro, i sondaggi danno vincente Jon Ossoff, astro nascente del Partito democratico, contro il repubblicano di lunghissimo corso David Perdue, considerato troppo vicino a Trump e, persino, al suprematismo bianco, il che, in uno stato in cui il 30 per cento degli abitanti è afroamericano, potrebbe non essere una buona pubblicità.
In acque simili naviga l’Iowa, stato nel quale nel 2016 Trump vinse di 10 punti su Hillary Clinton: la senatrice uscente è la supertrumpiana Joni Ernst, che vuoi perché impopolare, vuoi perché inefficace, vuoi perché coinvolta in una poco chiara faccenda di fondi neri, potrebbe avere la peggio sulla misconosciuta candidata dem Theresa Greenfiled (nota di colore: la scorsa primavera, il 73 per cento degli abitanti dello stato diceva di non averla mai sentita nominare). Più complessa è invece la partita in North Carolina: benché lo stato sia storicamente repubblicano, fino a pochi giorni fa il vantaggio del candidato a senatore Cal Cunnigham era attorno ai dieci punti percentuali. Poi, lo scorso giovedì, dal cellulare del candidato democratico sono usciti alcuni messaggi inviati a una presunta amante, e questo potrebbe rimescolare le carte. Infine c’è il Texas, che per i democratici è una specie di Sacro Graal elettorale, sia per le presidenziali (vale da solo 33 grandi elettori, se si sommassero ai 55 sicuri della California, le elezioni sarebbero cosa fatta), sia perché è ricchissimo (ha un pil di duemila miliardi, se fosse una nazione, la sua economia sarebbe la decima del mondo, pari a quella del Brasile), sia perché da moltissimi anni è inespugnabile.
Certo, a ogni elezione, il rosso intenso del Texas si fa sempre più tenue; certo a ogni elezione i risultati dei democratici si fanno sempre più incoraggianti; certo la forchetta si stringe sempre più, ma per ora, il vantaggio del senatore uscente John Cornyn sulla sfidante democratica, la veterana della guerra in Afghanistan, MJ Hegar, appare ampio (tra i 6 e i 10 punti), troppo perché il seggio possa essere considerato davvero in gioco. Ma ce lo hanno insegnato proprio gli americani che “it ain’t overe ‘till it’s over”. E se i democratici vincessero in Texas, si toglierebbero anche dall’impasse e a Mefistofele Risponderebbero: “Grazie, non ci serve niente”.
Dalle piazze ai palazzi