Ritratto di un paese che brucia, in cui lo stato di emergenza iniziato per le manifestazioni è stato prolungato per l'epidemia, e di una generazione giovane e istruita che vuole fare i conti con la storia
Il termine “coprifuoco” è ansiogeno, forse inappropriato per indicare misure che, a oggi, impongono la sola chiusura di locali e luoghi di aggregazione alle undici di sera o a mezzanotte. Il “coprifuoco” così inteso, è comunque il tema di cui discute più della metà del mondo, compresi noi italiani, quale migliore ipotesi per fermare la seconda ondata dell’epidemia senza chiuderci in casa come a marzo. Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico c’è però un paese dove questo linguaggio bellico è stato usato di recente con un significato più vicino a quello originale. In Cile il coprifuoco è un rumore di sottofondo a cui fare l’abitudine ormai dal 19 ottobre 2019, quando sono state sospese alcune libertà. I cittadini non sarebbero più potuti uscire dalle loro abitazioni tra le nove di sera e le sette della mattina. Vita sociale circoscritta oltre a seri disagi per i lavoratori che, partendo dalla periferia o dalla provincia per raggiungere le metropoli, sarebbero dovuti uscire di casa all’alba. All’epoca, il termine SARS-CoV-2 non era ancora stato coniato. Quello di ottobre 2019, per il Cile, era il primo coprifuoco dai tempi della dittatura di Augusto Pinochet Ugarte. Epoca in cui, in particolare durante i momenti più turbolenti degli anni settanta, se prendevi la macchina di sera i militari ti potevano sparare senza preavviso. Quello disposto il 19 ottobre dell’anno scorso è uno stato di emergenza che, con qualche breve interruzione, non cessa ormai da un anno. Alla fine dell’autunno era stato deciso per le oceaniche manifestazioni di piazza e i disordini che sono seguiti, alla fine dell’inverno è stato prolungato per l’epidemia, e non solo per quella.
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