Lo "scoop" contro il figlio del candidato democratico non funziona perché il Wall Street Journal, che aveva tutto il materiale, non lo conferma. I media credibili contano di più della centrifuga online di scemenze e accuse che sembrava imbattibile
All’inizio di ottobre anche nell’apparato trumpiano si pensava che la campagna di rielezione del presidente avesse bisogno “di una missione disperata di salvataggio”. Per questo motivo tre uomini della corte di Donald Trump – Arthur Schwartz, che si occupa di pubbliche relazioni, Eric Herschmann, che è un avvocato del presidente, e Stefan Passantino, ex consigliere della Casa Bianca – “si riunirono in una casa a McLean, in Virginia, per lanciare un’operazione” che secondo loro aveva il potenziale per rovinare la corsa di Joe Biden, a poche settimane dal voto. Come racconta Ben Smith, uno specialista di media che prima lavorava a Buzzfeed e ora ha un posto molto temuto al New York Times – temuto perché scova roba – i tre avevano invitato un reporter del Wall Street Journal, Michael Bender, per consegnargli del materiale compromettente contro il candidato democratico. Il Wall Street Journal è un giornale conservatore e credibile e l’uscita dell’inchiesta avrebbe coinciso con il secondo debate fra Trump e Biden. Il piano era trasformare il dibattito in un processo d’accusa. Il materiale compromettente consisteva in una raccolta di messaggi di posta elettronica di Hunter Biden, il figlio di Joe, e nella disponibilità di un suo ex partner di affari, Tony Bobulinski, a testimoniare per dire che anche il candidato era coinvolto nei traffici del figlio.
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