Una restaurazione liberale
Un'ora d'aria, parlando d'America
La rivista Liberties e la necessità di confrontarsi anche con “il mio incubo”
“La cosa più importante – scrive Wieseltier – è che conserviamo le nostre teste. Un disequilibrio della storia richiede un equilibrio della mente. La stabilità nel mezzo della turbolenza non è complicità con l’ordine esistente”
Le mascherine sui nostri volti sono “l’emblema di quest’epoca della vulnerabilità”, scrive Leon Wieseltier nel suo saggio su Liberties, la rivista che ha appena fondato e lanciato, rigorosamente di carta perché questa è la materia di cui è fatto il futuro secondo lui e il suo editore. O almeno di carta è fatto questo concentrato di riflessione liberale, un’ora d’aria insperata e meravigliosa in quest’epoca di stravolgimenti e vulnerabilità, ancor più utile quando cerchiamo di capire che ne sarà dell’America. Comunque vada, avremo a che fare con un incubo, perché in questa tornata elettorale 2020 di sogni si è parlato molto poco, ma c’è stato un gran traffico di incubi. Se vince l’altro, sarà un incubo per chi non lo ha votato: in sintesi, questo è oggi il senso delle “due Americhe”, più distanti della solita dicotomia blu-rosso, più distanti della lotta tra repubblicani e democratici. Il punto di rottura è: tu sei il mio incubo.
“La cosa più importante – scrive Wieseltier – è che conserviamo le nostre teste. Un disequilibrio della storia richiede un equilibrio della mente. La stabilità nel mezzo della turbolenza non è complicità con l’ordine esistente”. Conservare la testa mentre attorno tutto si capovolge. “La storia va più veloce del tempo che ci vuole per curare le nostre ferite”, scriveva il filosofo Vladimir Jankélévitch, e Wieseltier lo cita perché vuole tirarci fuori tutti dalla fretta di parlare, commentare, accusare, condannare e infine disperarci. Per quanto andremo veloci, le ferite hanno bisogno di più tempo per curarsi, e allora diamocelo questo tempo, non perdiamoci di fronte “a un pensiero apocalittico da quattro soldi”. “L’unico esito certo dell’approccio apocalittico – scrive Wieseltier, intellettuale raffinatissimo che all’inizio degli anni Duemila definivamo “falco liberal”, travolto dal MeToo mentre stava lanciando un magazine dal titolo Idea, e dovette gettare via tutto, per poi ripartire da e con Liberties – è la catarsi, e un modo per descrivere il declino della nostra politica negli ultimi decenni è proprio il fatto che sia diventata la politica della catarsi, nella quale le crisi vengono affrontate soltanto con le emozioni (il populismo è solo emotività di massa, e le emozioni sono spesso quelle orrende). L’apocalisse non è analisi: è la morte dell’analisi. Prepara il palco soltanto per la salvezza, ma la salvezza non deve mai diventare un obiettivo politico. E questo è specialmente vero nelle società democratiche, dove gli unici salvatori, ahimè, siamo noi stessi”.
Si intravede, in questa necessità di conservarci la testa e la mente mentre ci assumiamo la responsabilità di salvarci, quel che sentiamo dire in questi giorni dalla cancelliera tedesca Angela Merkel che non a caso è l’espressione più brillante e concreta del pensiero liberale. Il buon senso, la responsabilità, la calma, la riflessione anche. Liberties è questo, ci dice il suo editore, Bill Reichblum: una proposta contro l’immediatezza, l’improvvisazione, contro la voracità che non sazia.
Reichblum è un imprenditore filantropo che ha creduto in Liberties perché va nella direzione contraria rispetto a quelli che lui chiama “i media immediati”: “Quando utilizziamo quest’espressione, media immediati, ci riferiamo a come consumiamo le informazioni e i media, dove ogni storia sembra improvvisa e urlata e ogni analisi valorizza più la velocità della profondità. Il nostro approccio è quello di dare a chi scrive e a chi legge l’opportunità di scavare, di scoprire un punto di vista che sia comprensibile e d’ispirazione”. Liberties è un’ora d’aria (più di un’ora ovviamente, ma non basta comunque mai) di 415 pagine e 23 saggi: comprende anche due poesie del premio Nobel per la Letteratura Louise Glück, di cui una (“Memory”) parla del ricordo di conversazioni così franche e dirette “che non le ho mai dimenticate”. Le conversazioni in cui si poteva essere d’accordo o dissentire, ma in cui non si finiva col dirsi: tu sei il mio incubo. Celeste Marcus, managing editor della rivista, scrive nel suo saggio intitolato “The Sludge”, il fango: “Molti non si vergognano della propria confusione perché la confusione intellettuale non fa paura. E’ l’isolamento che fa paura. Temiamo il fatto di rimanere ai margini più della possibilità di sbagliare. Abbiamo paura di trovarci con i nostri schermi davanti a guardare i retweet o i like degli altri o a condividere un post senza che ci sia un nostro gruppo di riferimento con cui fare la stessa cosa. Chi non desidera far parte del tutto? Nella mia esperienza, quando la maggior parte delle persone parla di politica, è molto condizionata da questa preoccupazione, che compromette l’integrità stessa delle conversazioni. Molti scambiano un discorso social per un discorso intellettuale”.
Liberties cerca di recuperare il dialogo e il confronto: posso dire cose che piacciono ai progressisti e altre che piacciono ai conservatori, questo è quello di cui parliamo quando diciamo liberalismo. E la domanda rispetto a questo approccio c’è ed è grande, ci dice Reichblum: “Liberties sta trovando il suo pubblico, negli Stati Uniti e nel mondo. Questa piccola start up sta crescendo giorno dopo giorno e lasciando un segno sulla cultura e sulla politica. Continueremo a pubblicare autori conosciuti assieme ad altri che sono ancora lontani dai riflettori” ma che presto lo saranno. L’ora d’aria vuole essere sempre più utile, annullare il cosiddetto senso di colpa dei liberali – “chi maledice il liberalismo maledice il futuro”, scrive Wieseltier – e anzi prendere una nuova consapevolezza. Usando la testa, dandosi il tempo per curare le ferite, ricordandoci che nulla è dato per scontato nemmeno il fatto che “la democrazia è un posto in cui ci si comporta democraticamente”, una considerazione che non è più una tautologia, come non è più così vero quello che diceva Thomas Mann nel 1938 parlando a un pubblico americano: “L’America non ha bisogno di istruzioni quando si tratta di democrazia. L’Europa ha molto da imparare sulla natura della democrazia”. Fa male leggere queste parole oggi, scrive Wieseltier, l’America “non dà più istruzioni al mondo”, a furia di mettersi “first” ha finito per rimanere sola, e così anche noi.
L'editoriale dell'elefantino