Roma. La consapevolezza che ci fosse un’intesa pronta, negoziata tra il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco Recep Tayyip Erdogan per mettere fine al conflitto nel Nagorno-Karabakh, aveva lasciato indifferenti gli armeni, che hanno continuato a pensare che la guerra fosse da vincere, a ogni costo. Di quell’accordo si conosceva già abbastanza per concludere che sarebbe stato vantaggioso per tutti – azeri, russi e turchi – ma non per Erevan, che sarebbe stata costretta a fare grandi concessioni. Lunedì notte, il premier armeno Nikol Pashinyan ha annunciato la resa, ha detto di aver preso una decisione “dolorosa”, di averlo fatto dopo aver considerato tutta la situazione. Fino a pochi giorni prima i cittadini dell’Armenia avevano continuato a ricevere notizie di un conflitto complicato e sanguinoso che però si stava concludendo a loro favore, e quando invece si sono trovati davanti alla resa si sono sentiti traditi. Che Erevan stesse vincendo lo ripetevano anche i comunicati del premier e del presidente, Armen Sarkissian. Per l’Armenia e il Nagorno-Karabakh – l’enclave azera a maggioranza armena attaccata dall’Azerbaigian domenica 27 settembre – la sconfitta è chiara e anche molto dura. L’accordo che il premier ha siglato prevede che gli armeni perdano il controllo dell’area, al loro posto sono già arrivate delle forze di peacekeeping russe e che l’Azerbaigian riprenda il controllo di tutti e sette i distretti confinanti con l’enclave persi durante gli scontri. La Russia dispiegherà duemila soldati nella regione per un periodo iniziale di cinque anni, il suo ruolo sarà quello di controllare i corridoi: quello di Lachin che collega l’enclave con l’Armenia e quello che invece collega Nakhichevan, exclave azera in territorio armeno, all’Azerbaigian e quindi alla Turchia lungo il confine con l’Iran.
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