Tigri d'Asia
Tre donne, tre modelli di leadership che hanno contenuto il virus. Da Taiwan al Kerala, è dove si premia la competenza che si vince
Tsai Ing-wen, Jeong Eun-Kyeong e Shailaja sono soltanto tre dei numerosi esempi possibili di donne che sono diventate il volto di una leadership efficace durante l’emergenza, anche in Asia. Essere donne non è la condizione necessaria per una buona leadership, ma dove si premia la competenza ci sono anche le donne
Quando arriva alla presidenza di Taiwan, nel 2016, non tutti si fidano di lei. Giurista e docente, specializzata in commercio internazionale, con un passato da presidente di un’azienda di biotecnologia (un passaggio determinante per le scelte prese durante la pandemia) Tsai Ing-wen ha parecchie sconfitte elettorali alle spalle – quella a sindaco di Taipei, a leader del Partito, alle elezioni presidenziali nel 2012. Ci sono molte accuse che le muovono i leader del Kuomintang, il partito conservatore di Taiwan che a quel tempo era stabilmente al governo. Tsai sembra poco trascinante politicamente, troppo riformista. Quattro anni dopo la sconfitta del 2012, nel 2016, ci riprova: alle primarie del Partito democratico progressista non si presenta nessuno, è sola contro il Kuomintang. Ed è la sua occasione: si rifà l’immagine, parte per Washington, chiede supporto alla politica americana. E ci riesce. “L’ultima volta che una donna ha governato un paese a maggioranza cinese era all’inizio dell’Ottavo secolo, quando la feroce imperatrice Wu Zetian governava la Cina”, scriveva all’epoca Ben Bland sul Financial Times. Grazie anche ai guai organizzativi del Kuomintang, Tsai Ying-wen canalizza le speranze dei taiwanesi, e quattro anni fa stravince le elezioni. Come in tutta l’Asia, i simboli sono importanti, e dopo una settimana di pioggia il giorno in cui la prima donna diventa leader di Taiwan esce il sole. Come vicepresidente Tsai sceglie Chen Chien-jen: è una decisione particolare, perché Chen non viene da ruoli preminenti in politica. E’ uno scienziato, un epidemiologo noto a livello internazionale. All’inizio si parlava più del fatto che fosse il primo vicepresidente cattolico, in un paese a maggioranza taoista e buddista; quattro anni dopo si dice che Chen sia stato uno dei motivi fondamentali grazie al quale Taiwan è riuscita a contenere con successo la pandemia da Covid-19.
Tsai è una che impara dalle sconfitte: si dice che la sua carriera politica abbia preso il volo proprio nel 2012, quando era ormai chiaro che l’ex presidente del Kuomintang, Ma Ying-jeou, avrebbe rivinto le elezioni e Tsai pronunciò un famoso concession speech che è il punto di partenza per una nuova, rinnovata passione. “Sappiamo che il presidente Ma ascolterà i cittadini, governerà con attenzione e si prenderà cura di tutti. Speravamo in una nostra vittoria, ma la realtà è andata diversamente. Ma dobbiamo essere forti. Siamo il Partito democratico progressista, e di fronte alle sconfitte in passato non ci siamo mai arresi. Non lo faremo nemmeno oggi. […] Sebbene non sia possibile governare e trasformare i nostri ideali in realtà, questo non significa che non ci sia potere nell’opposizione. Taiwan non deve essere priva di voci di opposizione e non deve essere priva di pesi e contrappesi. Credo che finché ci sosterrete, finché continuerete a darci il vostro sostegno, ci sarà un futuro per noi. La prossima volta faremo quest’ultimo miglio”. Ma Tsai non si è fermata all’ultimo miglio, ed è andata avanti: l’11 gennaio di quest’anno, i taiwanesi sono stati chiamati al voto. L’affluenza è stata da record, con il 74,9 per cento dei 23 milioni di cittadini che è andato a votare. E Tsai ha vinto con una maggioranza che ha superato il 57 per cento dei voti, un record per il Partito democratico progressista. Il suo secondo mandato è iniziato il 20 maggio scorso, quando gran parte del globo era ancora in lockdown e guardava a Taiwan come a un modello di contenimento.
L’epidemia da Covid-19 ci ha fatto osservare più da vicino le donne leader. In un articolo pubblicato su queste colonne il 12 novembre scorso, il direttore Claudio Cerasa scriveva: “Perché le società guidate da donne hanno performato più di quelle guidate da uomini? Potrebbe essere qualcosa legato a un approccio diverso della leadership femminile? Potrebbe essere qualcosa legato a una capacità migliore di integrare i talenti? Forse. Ma ciò che si può dire dai dati raccolti da Goldman Sachs è qualcosa di più: il fatto che tra una crisi e l’altra le aziende andate meglio sui mercati siano quelle guidate da donne non è necessariamente l’effetto di un super potere della leadership femminile (o almeno non solo) ma è il segnale della presenza di un’azienda capace più di altre di premiare il merito”. Le aziende, come i governi che scelgono le donne nelle posizioni di leadership, premiano il merito e la competenza. Tsai è uno dei simboli di questo cambiamento. L’isola di Taiwan, che la Cina rivendica come suo territorio ma che ha un governo autonomo e un’indipendenza di fatto, è molto legata a Pechino per ragioni economiche. Durante i suoi ultimi anni di governo, il Kuomintang è stato accusato di aver concentrato gli sforzi politici a migliorare i rapporti con il Partito comunista cinese, dimenticando in parte non solo l’autonomia, ma anche la capacità di Taiwan di navigare da sola. Tsai si è offerta come l’alternativa praticabile, che non vuole la guerra con la Cina ma che punta a sottolineare con orgoglio la capacità del paese di essere autonomo, anche dal punto di vista culturale. La prima presidente donna, ma soprattutto la prima presidente non sposata, che vive con due gatti, che è riuscita nonostante la pressione dei gruppi conservatori a far approvare i matrimoni gay (è il primo paese asiatico a farlo). Con la pandemia il governo di Taipei si è mosso più o meno nella stessa direzione: come ha spiegato l’ambasciatore della Repubblica di Cina (il nome formale di Taiwan) in Italia, Andrea Sing-Ying, quando i casi di quella “strana polmonite” continuavano ad aumentare a Wuhan, il governo taiwanese, che conosce meglio di chiunque altro la Cina, non si è fidato, e ha iniziato a trattare il virus come se si trasmettesse da persona a persona per via aerea. Hanno pensato al peggior scenario, che poi si è rivelato esatto, e hanno vinto la battaglia.
A mille e cinquecento chilometri da Taipei, in una delle società più tradizionalmente maschiliste del mondo, un altro modello di contenimento della pandemia aveva una donna come volto della scienza e della responsabilità. Jeong Eun-kyeong è la direttrice dell’Agenzia per le malattie infettive della Corea del sud, istituzione che il presidente Moon Jae-in a settembre ha reso indipendente dal ministero della Salute, dandole più autorità e più budget. Jeong è la persona che tutti i coreani hanno imparato ad ascoltare sin dall’inizio dell’epidemia da Covid-19, “il capitano di una nave in mezzo alla tempesta”, come si è definita lei durante il discorso inaugurale. Pochi giorni fa la Bbc l’ha inserita tra le cento donne del 2020, e non a caso: “Ogni pomeriggio, intorno alle 2, i coreani l’aspettano in tv”, ha scritto su Repubblica Gabriella Colarusso. “Le sue conferenze stampa sono diventate un appuntamento nazionale, i cittadini la incoraggiano sui social network, lei informa su come stanno andando le cose. Dal 20 gennaio, quando la Corea del sud ha registrato il primo caso di Covid-19, Jeong Eun-Kyeong è diventata il volto di un modello di successo nella gestione della pandemia”. Come per la Tsai, sono gli errori del passato ad averla spinta a modificare il suo approccio, ad adottare nuovi protocolli. Jeong era a capo della divisione per le Malattie infettive durante l’epidemia di febbre suina del 2009, ma soprattutto gestiva il dipartimento di Crisi e comunicazione nel 2015, durante l’epidemia di Mers. La gestione di quella emergenza, in Corea del sud, fu disastrosa e determinante: il governo subì le critiche dell’opinione pubblica per aver tenuto nascosti i casi e la gravità della malattia. Ci furono 186 casi confermati e 36 morti, e oltre alla paura, la sfiducia nelle istituzioni montò pericolosamente. E’ da quell’esperienza che Jeong Eun-Kyeong ha capito che essere trasparenti è il miglior antidoto per le fasi d’emergenza: “Il governo e le imprese hanno lavorato a stretto contatto, gli operatori sanitari e i cittadini si sono uniti agli sforzi in modo disinteressato”, ha spiegato durante un simposio a metà ottobre. “La comunicazione tempestiva delle informazioni verificate e l’uso della tecnologia per rintracciare i contatti di persone risultate positive sono state fondamentali nella lotta contro il virus”.
Dall’altra parte dell’Asia, in un altro paese, in un altro mondo dove la pandemia è tutt’altro che arginata, c’è una donna che è emersa per le doti di leadership. KK Shailaja è la ministra della Salute dello stato indiano del Kerala, quasi trentacinque milioni di persone con enormi problemi riguardanti la povertà, l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Come ha raccontato il giornalista di Mumbai Vaishnavi Chandrashekhar su Science, quando “l’Organizzazione mondiale della sanità ha diramato il primo comunicato sul nuovo coronavirus che si stava diffondendo a Wuhan, pochi governi in India hanno prestato attenzione. Ma Shailaja è stata la prima a drizzare le orecchie”. Sapeva che molti studenti del Kerala erano all’Università di Wuhan a studiare, e che il paese era a rischio. “Il 24 gennaio, Shailaja aveva già convocato una riunione del team d’emergenza, aveva già allestito una sala di controllo e mobilitato le squadre di sorveglianza. Il 27 gennaio il primo gruppo di studenti è tornato da Wuhan. Tre giorni dopo, uno di loro è risultato positivo al Covid-19, diventando il primo caso confermato in India”, scrive Science. Il Kerala è un paese con una popolazione molto giovane, e questo ha consentito di tenere la mortalità da Covid bassissima, ma il sistema dei test e il controllo dei contatti dei contagiati messo in piedi da Shailaja è considerato tra i più efficaci al mondo, tanto che ogni volta che la curva delle infezioni è in risalita il governo del Kerala è in grado di riabbassarla. Non è una scienziata, Shailaja, ma è un’appassionata di scienza. K. Srinath Reddy, direttore della Public Health Foundation of India, ha detto a Science che “Shailaja Teacher” – il soprannome che si è guadagnata per il suo vecchio lavoro di insegnante, e che usa anche come nickname su Twitter – si è resa conto della situazione perché “ha ascoltato le persone, ha visitato gli ospedali privatamente, ha parlato con i medici”. Il Kerala ha un tasso di istruzione più elevato rispetto ad altri paesi indiani, e gode di un sistema sanitario migliore di altri. Ma le epidemie sono una minaccia ovunque, specialmente in luoghi con densità abitative come le metropoli indiane. Due anni fa Shailaja ha gestito da ministro della Salute l’epidemia del virus Nipah, che arrivava dai pipistrelli presenti nell’area del Kerala: alla fine di giugno c’erano stati 19 casi e 17 morti. Ma quell’esperienza ha fatto in modo che il governo di Trivandrum, la capitale, si preparasse a nuove epidemie con protocolli e sistemi di controllo. Le informazioni semplici, sicure ed efficaci, la trasparenza, hanno fatto in modo che i cittadini si sentissero rassicurati da questa ministra che possono contattare a qualsiasi ora del giorno e della notte, sui social network ma anche sul suo cellulare – il numero è pubblico sul sito del ministero. Il 23 giungo, durante la tradizionale Giornata del servizio pubblico delle Nazioni Unite, Shailaja è stata invitata a parlare della sua esperienza contro il Covid-19; Vogue India le ha dedicato una copertina speciale, la Bbc ha inserito anche lei tra le donne del 2020. Il suo nuovo soprannome, a quanto pare, è “Coronavirus slayer”. Una rockstar che ha imparato da sua nonna – un’attivista che lottava contro il sistema delle caste – ad ascoltare le persone, e a mettere la scienza davanti alla politica.
Tsai Ing-wen, Jeong Eun-Kyeong e Shailaja sono soltanto tre dei numerosi esempi possibili di donne che sono diventate il volto di una leadership efficace durante l’emergenza, anche in Asia. Ci sono le ricercatrici e le scienziate cinesi come Chen Wei, i medici che hanno messo in allarme Pechino come Ai Fen e Xie Linka; c’è Jacinda Ardern, la prima ministra della Nuova Zelanda. Essere donne non è la condizione necessaria per una buona leadership, ma dove si premia la competenza, ci sono anche le donne.