La vicenda della foto falsa pubblicata l’altro ieri da Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, con un soldato australiano che minaccia con un coltello un bambino afghano, ha aperto una serie di considerazioni su come i governi occidentali devono reagire alle provocazioni di Pechino. Zhao è un cosiddetto “wolf warrior”, una “nuova” classe di diplomatici che tenta di contrastare, su suggerimento di Pechino, la narrativa occidentale proponendo una nuova narrativa, quella con caratteristiche cinesi. Alla propaganda di Pechino il primo ministro australiano Scott Morrison ha risposto con una reazione particolarmente dura, chiedendo le scuse ufficiali della Cina. Il problema è che da almeno un anno le relazioni diplomatiche tra Australia e Cina sono ai livelli minimi, e per invertire la rotta servirebbe un dialogo tradizionale, la diplomazia dei vecchi tempi. Con la Cina, però, le relazioni internazionali non si muovono più secondo gli schemi del passato. Pechino, con i paesi con cui ha difficoltà, adotta già da qualche anno una sorta di “manuale” per imporre la propria influenza e irrobustire la propaganda interna, facendo leva sulla sua potenza economica, confondendo piani politici e commerciali e ignorando le regole occidentali. C’è una sorta di scala dell’escalation cinese nelle relazioni internazionali: si parte con il negoziato, si passa alternativamente alla guerra commerciale e al boicottaggio, per poi finire, nel peggior scenario, alla cosiddetta “diplomazia degli ostaggi”.
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