Dopo l’uccisione del generale e scienziato Mohsen Fakhrizadeh in Iran si è tornati a parlare di una possibile guerra nella regione, come a gennaio dopo la morte del generale Qassem Suleimani. In Iran in effetti i falchi chiedono una rappresaglia militare perché altrimenti, dicono, si rischia di perdere quel minimo di capacità di deterrenza che tiene a galla il paese. Il giornale Kayhan, vicino alla Guida Suprema, invoca un attacco contro il porto israeliano di Haifa con un’operazione che dovrebbe, secondo il giornale, rivelare l’impreparazione alla guerra di israeliani e americani. Come a gennaio, la possibilità di uno scontro in arrivo è un’interpretazione possibile – ma non plausibile. L’Iran non è in condizioni di sostenere un conflitto, la sua economia è in sofferenza, la pandemia ha avuto effetti debilitanti e c’è da contare che ci sono ancora cinquanta imprevedibili giorni di Amministrazione Trump e non si sa come potrebbe reagire il presidente americano: a gennaio ha ordinato l’uccisione di Suleimani e a giugno ha bloccato un attacco aereo contro le basi iraniane quando ormai gli aerei erano già in volo per andare a bombardare. Una guerra tra l’Iran e i suoi nemici non sarebbe una guerra di terra, ma uno scambio di bombardamenti e la differenza tra le due parti è enorme – nel marzo 2018 alcuni F-35 israeliani hanno sorvolato l’Iran senza farsi scoprire.
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