Da Salisbury a Navalny, la teoria di due giornalisti russi per spiegare come, anziché alzare il livello di sicurezza delle proprie agenzie di intelligence, Mosca avrebbe deciso di eliminarlo
Durante la conferenza stampa di fine anno di giovedì scorso, Vladimir Putin avrebbe potuto rispondere in vari modi alle domande sull’avvelenamento di Navalny e, visto che la domanda gli è stata posta anche da un giornalista a lui molto vicino, Putin avrebbe anche potuto decidere di non affrontare l’argomento. Invece, alla domanda, che voleva essere una domanda su tutti gli scandali – la figlia illegittima, l’amante ai vertice della Banca di San Pietroburgo e anche Navalny – il presidente ha risposto che tutti sanno che “il paziente di Berlino” lavora al soldo dei servizi americani, ma non per questo va ucciso. “A chi servirebbe? Se noi avessimo voluto ucciderlo, lo avremmo fatto”. Il problema sta proprio qui, che non soltanto probabilmente non ci sono riusciti, ma che si sono anche fatti smascherare da una squadra di giornalisti molto bravi e con tanti agganci, che ha impiegato soltanto quattro mesi a concludere l’inchiesta. Nelle indagini condotte da Bellingcat, The Insider, Cnn e lo Spiegel viene fuori che una squadra dei servizi segreti russi è responsabile dell’avvelenamento di Alexei Navalny, che da quattro anni veniva seguito da sette uomini dell’Fsb. Che un’agenzia di intelligence sia stata scoperta in questo modo è un segnale grave delle sue carenze.
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