Il dilemma del regime di Teheran che in vista delle prossime elezioni dovrà scegliere se vorrà risollevare l'economia, quindi tornare all'accordo sul nucleare, o restaurare l'orgoglio, vendicare Fakhrizadeh e Suleimani e rinunciare al primo obiettivo. Le alternative a Rohani, che ha molto promesso e poco mantenuto
Mercoledì 16 dicembre, l’Ayatollah Khamenei è ricomparso in pubblico fugando le voci che ciclicamente lo danno per morto. Seduto in fondo ad un grande salone, a metri e metri di distanza dagli altri astanti, il leader supremo ha tuonato davanti a un tendaggio d’un azzurro compatto che pareva fatto apposta per esaltare tanto il candore della barba, quanto il nero del turbante e della lunga veste. “Non fidatevi del nemico. Abbiamo visto come si sono comportati gli Stati Uniti con Trump, ma anche con Obama. Obama si è rivelato altrettanto malvagio nei confronti della nazione iraniana”. Ma un po’ per via dell’inquadratura che, di tanto in tanto, s’allargava rimpicciolendolo, un po’ per via della mascherina che offuscava la consueta gravitas, l’ esortazione contro i tranelli della futura amministrazione Biden, è suonata fiacca, come se a dispetto dell’odio granitico contro il grande satana statunitense, Khamenei non fosse in grado di nascondere la stanchezza accumulata nel suo annus horribilis. E del resto l’occasione in cui ha scelto di palesarsi - una commemorazione in onore di Qassem Suleimani - non poteva che ricordargli quello che gli ultimi dodici mesi gli hanno sottratto.
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