I bicchieri di tè sbattono sui piattini, qualcuno addenta un biscotto e lo rimette giù, qualcuno si mordicchia nervosamente un labbro. Le tende color bronzo sono lucide e pesanti, ma gli altri elementi dell’arredo sono essenziali: un paio di sedie, un microtavolino di quelli che al massimo possono tenere un portapenne e un telefono, un mucchietto di riviste e dei libri accatastati sopra a una moquette chiara, un quadro dentro una cornice dorata e una foto del padre della Rivoluzione, Ruhollah Khomeini. L’unica concessione alla comodità è rappresentata da una fila di cuscini rettangolari, posti a terra, lungo tutto il perimetro della stanza. I cuscini, dall’aria vissuta e a motivo floreale, sono per gli ospiti che ci appoggiano la schiena, alcuni restano rigidi, immoti come tanti piccoli Buddha, altri incurvano le spalle dondolando indietro o di lato, oppure s’accasciano scomposti, indifferenti alla presenza della telecamera. E, in fondo a questa sala gremita e disadorna, a volte su una sedia, ma più spesso a terra, davanti a un identico cuscino con i fiori stilizzati che ricordano vagamente gli stilemi Arts and Crafts, siede, a gambe incrociate, l’ayatollah Ali Khamenei. Siede e ascolta. Un giovane con un ciuffo alla Elvis, onorato della sua vicinanza, un regista altrettanto onorato epperò inquieto perché vorrebbe realizzare più progetti, ma nel suo settore, come negli altri, la crisi sta picchiando duro, un ragazzo, fintamente ingenuo o fintamente sfacciato che insinua che forse gli fa difetto il senso dell’umorismo. E, a tutti, un po’ Salomone, un po’ capo-tribù, Khamenei risponde. Partecipe, bonario, a tratti addirittura ilare.
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