La messa in stato di accusa del presidente uscente ha costretto i repubblicani a fare quello che non volevano fare: schierarsi, contarsi, staccarsi
L’impeachment day, il secondo dell’Amministrazione Trump, un altro record di questo mandato che diventerà “storico” per ragioni invero poco rassicuranti, è stato scandito dai lamenti dei repubblicani e dalle immagini belle e spaventose della Guardia nazionale dentro il Campidoglio – tantissime guardie, alcune che riposano – a ricordarci quel che è accaduto, e quel che alcuni temono possa accadere di nuovo il 20 gennaio. La Camera ha deciso di passare all’impeachment di Donald Trump dopo che il vicepresidente, Mike Pence, ha escluso di voler rimuovere il suo capo utilizzando l’articolo 25 e dichiarandolo “unfit” al governo. Il testo degli articoli che costituiscono i capi di imputazione della messa in stato di accusa è stato scritto da tre deputati democratici (uno è Jamie Raskin, del Maryland, che in questi giorni porta su di sé tutto il dramma di questa fase e molto di più, l’insurrezione politica e la morte di suo figlio, che si è suicidato pochi giorni fa a 25 anni) e ha costretto i repubblicani a fare quello che non volevano fare: schierarsi, contarsi, staccarsi da Trump oppure no. Il fatto che questo processo sia tardivo (eufemismo) è diventato un alibi per molti repubblicani: a cosa serve questo processo a pochi giorni dall’inaugurazione di Joe Biden? Serve, sostengono i democratici, e molti repubblicani la pensano allo stesso modo se il voto per l’impeachment è definito dai media “bipartisan”.
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