La tanto agognata “solidarietà europea” sulla redistribuzione dei migranti rischia di trasformarsi nell’ennesimo nulla di fatto. Lo scorso settembre, la Commissione von der Leyen aveva sottoposto al Consiglio dell’Ue e al Parlamento europeo una proposta di Migration Pact. In un raro momento di intesa collettiva, il testo era stato accolto con il medesimo scetticismo sia dai recalcitranti paesi di Visegrád sia da quelli del fronte sud dell’Unione, già vessati da un Regolamento di Dublino che da anni definiscono discriminatorio. Le aspettative erano ben altre e il progetto patrocinato dalla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson non è andato oltre le mere dichiarazioni di intenti, sintetizzate dall’abusatissimo slogan del “superare Dublino”. Nei fatti, la novità principale era quella della “solidarietà per i rimpatri”. Il sistema funziona così: se per esempio un migrante è tratto in salvo in Italia al termine di un’operazione di ricerca e salvataggio in mare, allora uno degli altri paesi dell’Ue, per esempio la Francia, potrà scegliere come dimostrare la propria solidarietà. Il primo modo per farlo – secondo una logica tanto elementare quanto poco condivisa dai paesi membri – è quello di offrirsi per accogliere il migrante e prenderne in carico la domanda di asilo. In alternativa – e qui invece la logica si complica di molto – la Francia potrebbe decidere di prendere in carico l’iter di espulsione del migrante irregolare sbarcato in Italia (return sponsorship) sfruttando i suoi accordi bilaterali sottoscritti con i paesi terzi. I francesi a quel punto avranno otto mesi di tempo per tentare il rimpatrio e, alla scadenza di questo periodo, il migrante dovrà essere trasferito dall’Italia alla Francia.
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