“Decenni di dittatura hanno fatto sì che per lei nessun orrore fosse inimmaginabile. L’ottimismo e la fede nella razionalità su cui basavo le mie previsioni le erano estranei”. Così scrive Aye Min Thant, giornalista e attivista birmana. Per lei un golpe sarebbe stato stupido, perché i militari detenevano già il potere. Erano loro i “leader de facto”, non Aung San Suu Kyi. Col vantaggio che potevano fare della Signora il loro capro espiatorio. E’ accaduto all’alba del 1° febbraio, complice buona parte dell’occidente. Ma per comprendere il Myanmar di oggi bisogna uscire dalla logica occidentale ormai assimilata da Aye Min. Bisogna partire da un concetto semantico, quello di “Tatmadaw”. Letteralmente significa “Forze armate”, ma in Birmania ha quasi il valore di “lato oscuro della forza” che pervade i weikza, gli stregoni, dai poteri sovrumani: i generali. Sono loro che dal 1948, data dell’indipendenza, costituiscono uno stato occulto: un sistema instaurato dal generale Aung San, padre della patria e di Suu Kyi, graduando la forza con diversa intensità.
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