Alexei Navalny è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per aver violato, secondo il tribunale Simonovski di Mosca, la libertà vigilata per una condanna ricevuta nel 2014. Un’ora prima della sentenza le piazze principali di Mosca erano state chiuse per evitare che i manifestanti potessero protestare contro l’incarcerazione del più celebre oppositore russo che, dopo essere tornato dalla Germania, dove era stato portato d’urgenza in seguito all’avvelenamento con un agente nervino molto potente, è riuscito a radunare attorno a sé sfumature diverse dell’opposizione russa. Che il processo avesse poco di serio e molto di arbitrario si è capito in fretta. Il pubblico ministero continuava ad accusare Navalny di aver violato la libertà condizionata non presentandosi agli incontri con le autorità russe. Navalny continuava a ripetere che non poteva presentarsi perché era in coma a Berlino dopo il tentato omicidio e poi ancora troppo debole per viaggiare. Navalny ha preso la parola per dire che l’unica spiegazione del processo era l’odio di un uomo, “di un ladruncolo in un bunker”, di Putin. In tribunale ha accusato direttamente il presidente per averlo avvelenato: “L’ho offeso mortalmente sopravvivendo... E poi ho commesso un reato ancora più grave: non sono andato a nascondermi”. Dmitri Peskov, il portavoce del Cremlino, aveva comunicato che Putin non avrebbe seguito il processo e il presidente ha trascorso la giornata a rilasciare dichiarazioni su quanto siano pericolosi i social per la mente dei russi. Mentre si nascondeva e continuava a non commentare il più grande caso giudiziario russo, Navalny dall’aula continuava ad accusarlo direttamente: “L’omicidio è l’unico modo in cui sappia combattere. Passerà alla storia come un avvelenatore. Ricordiamo Alessandro il Liberatore e Yaroslav il Saggio. Bene, ora abbiamo Vladimir l’Avvelenatore”.
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