Anatomia di un pasdaran
Si fa strada una terza generazione di Guardie della rivoluzione, molto più cinica di quella degli esordi. L’eredità di Suleimani e i candidati alle presidenziali: per loro oggi conta solo il successo, a ogni costo
Nell’estate del 1981, mentre infuria la guerra con l’Iraq e la terra trema nella provincia di Kerman, mentre l’ayatollah Khomeini liquida i Mujaheddin-e-Khalq e Qassem Suleimani si fa le ossa combattendo in Khuzestan, la rivista satirica Bohlul pubblica una vignetta che cattura a pieno lo spaesamento della vecchia guardia in un Iran che non solo non le somiglia, ma che ferocemente la disprezza. In primo piano campeggia un ragazzo con le guance imberbi, è seduto con le gambe accavallate, nella mano destra tiene una sigaretta e con la sinistra apre il palmo e lo allunga verso un kalashnikov. Sorride. Forse scherza, o forse no e sguazza in quest’ambiguità, perché nel frattempo un uomo si sta chinando per omaggiarlo e non si tratta di un altro ragazzo, ma di un signore di mezz’età, dall’aria distinta, con la frustrazione dipinta in volto, un signore che fatica a piegare la schiena e che, quando lo fa, non può impedire agli occhi atterriti di correre verso il fucile. “Nel nuovo sistema l’insegnante è al servizio dello studente e il preside è al servizio dell’insegnante”, recita la scritta nel campo bianco sopra le due figure, perché nel 1981 la Repubblica islamica è nel pieno della sua rivoluzione culturale (sì, il modello è quello cinese), dal 1980 al 1983 le università rimarranno chiuse in attesa di altri programmi, altri libri, altri criteri di selezione per i docenti e per gli studenti. Se i palazzi del potere sono dominati da uomini con il turbante, nelle strade di Teheran, così come nelle trincee del Khuzestan, a fare il bello e il cattivo tempo sono ragazzi tronfi, ingenui e zelanti che ricordano tanto quello di Bohlul.
Da dove sono sbucati questi nuovi iraniani?, si chiedono signori esterrefatti come il professore e signore con le mèches inseguite al grido di “Ya rusari, ya tusari” (copriti la testa o prendi un colpo in testa). Perché questi ragazzi hanno poco in comune con quelli del movimento studentesco che negli anni Settanta manifestavano contro lo scià. Non appartengono all’élite cosmopolita e tantomeno alla classe media urbanizzata, non sono mullah in erba o intellettuali smaniosi, fulminati sulla via di Frantz Fanon, alfieri dei diritti delle masse o fustigatori dei peccati della borghesia comprador. In sintesi, non somigliano, per dirla come Salvador Allende, a quelli per cui “essere giovani e non essere rivoluzionari è una contraddizione perfino biologica”. Questi sono ragazzi che non ambiscono a cambiare il mondo, perché non hanno abbastanza fiducia in se stessi per credere di riuscirci e quando salgono sul carro della rivoluzione è quando tutto sembra già inevitabile.
Prima, come racconta Arash Azizi nel suo libro dedicato all’ascesa e alla caduta di Qassem Suleimani, “The shadow commander”, i compagni d’avventura dell’ex capo di al Quds non sono ragazzi particolarmente osservanti. Magari non folleggiano al K Club negli anni della disco fever persiana, ma non è che rinuncino a divertirsi. Amano i film di John Wayne, Charlie Chaplin, lo sceneggiato “Morad l’elettricista” e le canzoni d’amore della conturbante Gogoosh. Frequentano il cinema e la palestra, se vivono in campagna sognano la città e, in città, sognano “la città”, ossia Teheran, dove le luci brillano più forte, e tutto sembra muoversi a velocità supersonica. Quando iniziano a bazzicare le moschee è nel momento in cui le moschee diventano luoghi in cui accadono cose, luoghi in cui si sentono parole che non si pronunciano altrove e dove anche senza aver letto Jack London e aver ballato al K Club si può pensare di far parte di qualcosa di più grande. Eppure, mentre trionfa la rivoluzione, per tanti Suleimani d’Iran, la vita seguita a scorrere quasi come nulla fosse.
“In quei giorni caotici il pollaio era rimasto aperto e le galline erano fuggite – racconta Farid, amico fraterno di Suleimani – E a quel punto l’unica cosa che volevamo era spennare quei polli e metterli sulla griglia”. In fondo, a loro non importava della politica, dice Farid. “Ma alla politica importava di noi”. La politica non solo vedeva ragazzi come Farid e Qassem Suleimani: la politica, per la prima volta, li faceva sentire importanti. E allora, se la rivoluzione era davvero nata per servire gli oppressi, se era davvero “una rivoluzione sociale in nome di Dio”, come sancì il decano della storiografia marxista Eric Hobsbawm, allora la rivoluzione non andava solo applaudita, andava protetta. Il corpo delle Guardie rivoluzionarie nasce il 22 aprile 1979 con quest’intenzione. All’inizio è solo un coacervo di gruppi rivali che trova una quadra quando l’equivoco Mohsen Rafiqdoost, già autista e capo della sicurezza di Khomeini, pone fine alle diatribe estraendo una colt. (“Se non arriviamo da qualche parte alla fine di questo incontro, prima ammazzo voi e poi ammazzo me”, riportano le cronache).
Fatto sta che, a stretto giro, i pretoriani di Khomeini producono un vademecum per aspiranti pasdaran che contempla nell’ordine: credere nella natura islamica della rivoluzione e nella Repubblica islamica; possedere sufficiente coraggio e determinazione ed essere pronti a dimostrarlo dal punto di vista fisico, intellettuale e spirituale; rigettare l’imperialismo, il sionismo, la dittatura e ogni forma di razzismo. Tuttavia, quando i ragazzi come Suleimani si presentano al cospetto dei primi comandanti pasdaran non pensano alla lotta contro l’imperialismo. Quello che li muove è la promessa di Khomeini, l’idea di una società che mette al centro i bisogni degli oppressi. Il resto è ancora un rumore di fondo e la prima volta che il ventiduenne Gholam Reza Karami, responsabile del reclutamento dei pasdaran di Kerman, incontra il futuro leader di al Quds, lui ha ancora l’aspetto di uno che ama il cinema e la palestra più della moschea. “Indossava una camicia aderente, a maniche corte, aveva i capelli riccioluti e una cintura alta – racconta Karami – Non pensavo che avremmo dovuto accettare un personaggio del genere!”. Difatti, al primo tentativo, Suleimani viene scartato, e in seguito quando la sua candidatura sarà rivista (è già la primavera del 1980), il fattore determinante non è il fervore religioso, ma il corpo allenato da karateka.
E c’è da domandarsi cosa ne sarebbe stato di quest’esercito di ragazzi desiderosi di riscatto, adolescenti o poco più che ventenni, animati dal gusto della rivalsa, se non fosse arrivata la guerra, perché è la guerra a trasformare questa generazione e a legarla a doppio filo al regime. “La guerra è un regalo dal cielo”, dice Khomeini e, in effetti, dal suo punto di vista è proprio così. L’attacco di Saddam e l’indifferenza della comunità internazionale nei confronti di un Iran che, per quanto rivoluzionario è pur sempre la parte offesa, permettono alla neonata Repubblica islamica di rivitalizzare concetti cari allo sciismo come il martirio e la resistenza eroica e poi di convertirli in formidabili strumenti di propaganda. Perché ai figli della vecchia guardia che trascorrevano le vacanze al Caspio queste invocazioni suonano vuote, ma per quelli come Suleimani ogni riferimento, ogni parola è immediatamente intellegibile – anche chi non ha studiato conosce la parabola triste dell’Imam Hossein – e il dovere di respingere gli invasori fa affiorare sentimenti profondi.
Così, mentre al fronte i ragazzi diventano uomini, attorno all’idea della “sacra difesa” si cristallizza l’ethos del pasdaran, che non ha più bisogno di essere colto o ricercato, che non si deve più vergognare di essere un dehati, un campagnolo, perché sono quelli ba kelas, con classe, a non contare più nulla. E il regime glielo fa pensare, lo illude di essere il cuore pulsante della nazione, film, libri e documentari esaltano le gesta dei pasdaran e, parallelamente al sistema del welfare ereditato dallo scià, ne cresce un altro fatto di fondazioni, organizzazioni e comitati, intitolati all’ayatollah Khomeini, ai martiri e agli oppressi, e questa rete elargisce premi e sussidi ai combattenti e alle loro famiglie.
Tra il 1976 e il 1986 – scrive Kevan Harris nel suo “A social revolution. Politics and the welfare state in Iran” – gli analfabeti e i settori della popolazione con un livello di istruzione basso o molto basso detengono un potere d’acquisto schiacciante rispetto ai cittadini provvisti di un alto livello educativo e questo scollamento tra il reddito e la preparazione culturale è una precisa conseguenza delle politiche del nuovo Iran rivoluzionario. Senonché quando finisce la guerra, i reduci tornano a casa, e il mondo non è più lo stesso. Nel 1986 è crollato il prezzo del petrolio e il regime, costretto a sostenere da un lato il peso dello sforzo bellico e dall’altro quello del welfare rivoluzionario, è alle corde. Poi muore Khomeini e la nuova parola d’ordine è ricostruzione. Nel frattempo sono tornati in auge gli esperti, le qualifiche e i diplomi. Gli oppressi favoriti dalle corsie preferenziali per l’accesso all’università hanno iniziato a studiare e nessuno ha più voglia di ascoltare le storie dei veterani che raccontano di morti e di martiri. “Non c’è nulla di anti islamico nel benessere e nell’accumulazione di denaro (…) Il pensiero fatalista secondo il quale è compito di Dio provvedere a ogni cosa è sbagliato”, sottolinea il presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani nel 1990 durante un discorso che fa molto rumore.
Ma oltre a suggerire che i diseredati devono darsi una mossa, Rafsanjani ha pure l’ardire di mettere alla berlina i feticci della controcultura pasdaran. “Siamo arrivati al punto in cui lo stile di vita e l’apparenza di un hizbollahi (un sostenitore della rivoluzione, ndr) vengono considerate sgradevoli. E questo non va bene. Non è giusto che debba essere brutto e sgraziato, che un hizbollahi venga additato come un impresentabile. E’ l’islam stesso a condannare questo atteggiamento, a definirlo un peccato. Perché la nostra fede ci prescrive di essere curati, (…) di pettinare i capelli, di mettere il profumo, di indossare abiti puliti. Non dimenticate che anche il profeta osservava il suo riflesso nell’acqua per accertarsi di avere un aspetto decoroso agli occhi dei suoi ospiti”.
Per i veterani si tratta di un risveglio amaro. A dieci anni dalla rivoluzione il fervore della mobilitazione si è spento, l’etica del successo sta già rimpiazzando quella del sacrificio, e per i soldati semplici, che attraversano la guerra senza diventare Suleimani, la Repubblica islamica riserva sorprese amare. Il protagonista del film “Oro rosso” di Jafar Panahi per esempio è un ex pasdaran in crisi con la vita, non ha abbastanza soldi per sposarsi e arrotonda consegnando pizze a domicilio. Un giorno un ordine lo porta a casa del suo comandante, ma l’uomo che nel frattempo ha fatto fortuna non lo riconosce perché il ragazzo, devastato dai segni che hanno lasciato le armi chimiche, è imbottito di cortisone. Alla fine disperato tenta una rapina, fallisce e si uccide. Ma ci sono anche pesci piccoli che capiscono che la musica è cambiata. Studiano, diventano ingegneri, hacker, spie, persuasori o picchiatori di professione. Costruiscono dighe e ponti. L’ascensore sociale è lento ma nel 2005 Mahmoud Ahmadinejad guadagna la presidenza attaccando i rivoluzionari da salotto e, per un po’, torna persino in auge l’estetica sdrucita che odiava Rafsanjani.
Intanto, i ragazzi invisibili degli anni Settanta hanno messo radici nei quartieri bene del nord di Teheran e il gotha dei pasdaran risiede in un esclusivo complesso residenziale vicino al Lavizan Jungle Park. L’insicurezza però non è ancora svanita. Le mogli dei pasdaran indossano jeans attillati sotto i loro soprabiti, non perché sono ribelli, ma perché desiderano assomigliare alle altre. I bazar pullulano di souvenir con l’effigie di sovrani della dinastia Qajar e all’estero i “rich kids” della nomenklatura pasdaran preferiscono glissare sulle loro origini. Nel frattempo, accanto ai pasdaran di prima e seconda generazione, si fa strada una terza generazione di pasdaran molto più cinica di quella degli esordi. Il successo è il nuovo mantra, il successo a ogni costo. E a scorrere la rosa di candidati che si stanno già scaldando per le presidenziali di giugno viene da pensare che il ragazzo con il sorriso beffardo nella vignetta di Bohlul abbia davvero vinto.
Perché mai come quest’anno, marcato dall’assenza di Suleimani, ci sono pasdaran per tutti i gusti: Mohammed Bagher Ghalibaf, già sindaco di Teheran e presidente del Parlamento, è un pasdaran che ama gli aerei e le giacche di pelle; Hossein Dehgan, invece, è un pasdaran- burocrate di solida militanza, consigliere militare di Khamenei, è stato ministro di Hassan Rohani, non tollera le discussioni e se può evita di prendere partito; Parviz Fattah è il pasdaran con la testa calda, la mina vagante, dirige la Fondazione degli oppressi e si è talmente calato nella parte che intraprende battaglie giacobine un giorno sì e un giorno no; Said Mohammed, è il pasdaran-ceo con lo sguardo di velluto, dirige la holding Khatam al Anbiya e stando alle voci andrà lontano.
Epperò i guardiani della rivoluzione hanno la reputazione ferita a morte da anni in cui la repressione ha schiacciato i nuovi oppressi come mosche, tanto che il ministro dell’Interno Abdolreza Rahmani Fazli ha confessato di essere preoccupato dall’apatia degli iraniani. Il clima che si respira a pochi mesi dal voto – ha detto – non è mai stato più “quieto e più freddo”. Come se, nonostante tutto, i pasdaran non riuscissero comunque a ottenere lo sguardo che da quarant’anni vanno cercando.