Nella notte tra giovedì e venerdì aerei americani hanno lanciato sette bombe da 230 kg contro una base delle milizie in Siria, molto vicino al confine con l’Iraq. E’ stata la prima operazione militare autorizzata dal presidente Joe Biden – per quel che sappiamo – e si presta a equivoci del tipo: “La nuova Amministrazione è guerrafondaia”. Queste azioni in realtà sono diventate di routine a prescindere da chi c’è alla Casa Bianca perché fanno parte del botta e risposta ininterrotto fra gli Stati Uniti e le milizie manovrate dall’Iran in altri paesi come l’Iraq e la Siria. Nelle ultime due settimane c’è stata un’accelerazione. Il 15 febbraio le milizie hanno lanciato venticinque razzi contro l’aeroporto internazionale di Erbil, nel nord dell’Iraq, che ospita anche militari americani (undici razzi sono finiti nelle strade della città e hanno ucciso un civile), il 20 febbraio hanno lanciato quattro razzi contro la base aerea di Balad che ospita contractor americani che si occupano di manutenzione degli aerei e il 22 febbraio hanno lanciato due razzi contro la Zona verde di Baghdad – e anche in quell’area ci sono militari americani e l’ambasciata degli Stati Uniti. In tutti e tre i casi le milizie che hanno sparato i razzi hanno accettato la possibilità di uccidere americani, era quasi scontato che l’altra parte ristabilisse un minimo di deterrenza – prima della visita di papa Francesco in Iraq, che forse tra una settimana porterà una calma temporanea.
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