Il modello inglese contro il Covid
Fino alla fine del 2020, i britannici si sentivano in ritardo e delusi da Johnson. Poi sono arrivati i vaccini e ora la competenza scientifica e sanitaria sembra restaurata. Ecco cosa è successo (no, la Brexit non c’entra)
Fino alla fine del 2020 gli inglesi vedevano la storia del Covid-19 nel loro paese come una sequenza di disgrazie, di errori di calcolo e di disastri. Non avevamo fatto le cose per bene. Questo verdetto severo era in parte addolcito dalla consapevolezza che la maggior parte delle democrazie liberali, fatta eccezione per la Nuova Zelanda e forse per la Germania, aveva fatto molta fatica a prendere il controllo di un evento tanto straordinario. Ma in ogni caso dovevamo guardare in faccia la realtà. Anche per una nazione spesso allegramente disinteressata a ciò che accade in altre parti del mondo, e spesso indifferente alla vita politica e sociale dell’Europa continentale, non c’era modo di sfuggirle. La Gran Bretagna stava andando peggio di quasi tutti gli altri – per certi versi anche peggio dell’America di Donald Trump.
Guardavamo giorno dopo giorno grafici cupi, con più morti pro capite rispetto agli altri, più casi di Covid in generale, e più danni economici rispetto ad altre grandi economie. Sapevamo anche che nella prima fase della pandemia c’era stata una disperata penuria di dispositivi di protezione per il personale medico, che alcune delle nostre case di cura erano state trappole mortali e che non riuscivamo a costruire uno schema di tracciamento efficace per isolare in fretta chi contraeva il virus. Persino i giornali che hanno come riflesso politico principale quello di tifare ad alta voce per Boris Johnson, non da ultimo a causa della loro piena approvazione per la Brexit, difficilmente potevano negare l’evidenza. Per la maggior parte del 2020 il governo Johnson è stato molto criticato. C’è stata forse una certa simpatia nei suoi confronti quando ha preso il Covid ad aprile ed è finito in terapia intensiva per diversi giorni, ma non è durata a lungo. Soltanto pochi mesi dopo una maggioranza schiacciante alle elezioni del dicembre del 2019, girava voce che il premier sarebbe stato costretto a dimettersi, o perché non si era ripreso dal virus o perché semplicemente non era in grado di gestire la crisi.
Ora sembra tutto molto differente. Guardiamo grafici sorprendentemente diversi che raccontano una storia diversa, e mostrano il Regno Unito quasi in cima alle classifiche delle vaccinazioni – dietro Israele, ma molto più avanti ai paesi dell’Unione europea. Se il punto di partenza è che vaccinare contro il coronavirus è una buona cosa, allora qualcosa nel Regno Unito sembra essere andato decisamente bene. Ogni sera guardiamo le immagini televisive di cittadini felici con le maniche tirate su, che fanno larghi sorrisi mentre l’ago entra nel braccio. I ministri danno voce alla loro gioia, i politici dell’opposizione danno il loro sostegno e anche gli intervistatori e i giornalisti di solito cinici o semplicemente poco convinti, fanno molti complimenti.
Né gli errori e le crisi della gestione del Covid lo scorso anno né l’attuale successo nella campagna di vaccinazione hanno a che fare in modo diretto con lo psicodramma degli ultimi quattro anni che ha dominato la vita politica e mediatica nazionale prima del virus – cioè la Brexit. La Brexit c’è stata per così tanto tempo e in modo tanto pervasivo che molti di noi hanno faticato a reindirizzare il cervello e analizzare la pandemia – che è la storia di un virus maleducato senza alcun interesse nel vocabolario della Brexit sull’identità nazionale, la sovranità, l’immigrazione, i presunti eccessi di burocrazia di Bruxelles o la politica comunitaria sulla pesca. Ma questo non vuol dire che il linguaggio della Brexit non abbia avuto un ruolo nel modo in cui alcuni hanno scelto di interpretare la performance sul Covid del Regno Unito. Per anni i brexiteer hanno colto ogni occasione per sottolineare le differenze, alcune reali e altre immaginarie, tra la Gran Bretagna e il resto dell’Europa – il Covid non avrebbe fatto eccezione. Ma può anche essere vero che per alcuni politici europei la frustrazione riguardo alla Brexit abbia modificato il loro giudizio sugli stessi vaccini.
Tornando indietro di un anno, è difficile capire la ragione precisa della riluttanza della Gran Bretagna a fare il lockdown. Potrebbe essere l’ansia per il fatto che le misure necessarie ad arrestare la pandemia sarebbero state un’intrusione troppo grossa nella libertà individuale – e la gente non l’avrebbe seguite. L’inchiesta pubblica sulla gestione del Covid tenterà presumibilmente di spiegare perché la Gran Bretagna abbia reagito tanto lentamente alla catastrofe già in corso in Italia nel febbraio 2020. Le bare a Codogno e i medici con gli occhi lucidi di Bergamo avevano fornito un duro avvertimento. La maggior parte dei virologi ed epidemiologi del Regno Unito, e ce ne sono molti, diceva a Johnson di fare il lockdown, ma lui non riusciva a farlo.
Allora sembrava che ogni giorno di ritardo avesse conseguenze fatali. Ma il 16 marzo Johnson scelse di ignorare la logica del virus, e il consiglio dei suoi scienziati, di chiudere cinema, teatri, pub e ristoranti. Ci disse soltanto di non frequentarli. Fu una risposta di corto respiro. Nel giro di una settimana fummo costretti a fare ciò che la maggior parte del resto d’Europa aveva già fatto. Molti pensano che il modo zoppicante con cui il Regno Unito è entrato in lockdown sia costato migliaia di vite.
Fu un errore politico, che si è ripetuto in autunno, quando siamo stati di nuovo più lenti della maggior parte degli altri paesi a reagire alla seconda ondata. Non è molto probabile che questa decisione sia stata causata dal desiderio di rimarcare la nostra differenza dall’Europa continentale. Ma gran parte del linguaggio di Johnson durante la crisi è stato caratterizzato dall’eccezionalismo inglese, con forti echi del dibattito sulla Brexit.
Johnson ha uno stile retorico peculiare che costituisce la spina dorsale del suo successo politico. Si assume più rischi e tenta più battute di qualsiasi altro politico britannico degli ultimi tempi. I suoi sostenitori trovano questa esuberanza e l’apparente spontaneità convincenti o addirittura “autentiche”. Altri le trovano grossolane e banali. Quello che è certo è che non conosce modestia e understatement.
Diverse volte nell’ultimo anno il premier ci ha raccontato della sua angoscia personale, in quanto autoproclamato “amante della libertà”, per aver introdotto imposizioni e restrizioni. Ecco un esempio rappresentativo della sua retorica, a settembre ai Comuni: “C’è una differenza importante tra il nostro paese e molti altri. Il nostro paese ama la libertà... Sono profondamente, spiritualmente riluttante a introdurre una qualsiasi di queste imposizioni, o a violare la libertà di chiunque”. E poi fece questo riassunto storico banale: “Praticamente ogni progresso, dalla libertà di parola alla democrazia, è arrivato da questo paese”.
Johnson sottintendeva che la nostra sofferenza – la nostra scarsa prestazione sul Covid – era dettata dal fatto che noi britannici prendiamo la libertà così seriamente – e più seriamente di chiunque altro. Tanta superbia è in realtà un riflesso. Johnson aveva raggiunto il suo punto più basso lo scorso maggio quando ci aveva detto che il Regno Unito avrebbe messo in piedi, nel giro di pochi giorni, una campagna di test, monitoraggio e tracciamento “world beating”. Era insensato. Per molti anni la Gran Bretagna aveva investito troppo poco nella sanità pubblica e il nostro sistema di test e tracciamento era costruito su fondamenta orrendamente fragili. Il premier ha nominato un suo amico alla guida del sistema, senza un processo di selezione, e l’intera impresa ha suscitato un diffuso scetticismo. Anche ora non molti credono che il nostro sistema di tracciabilità funzioni bene.
In questo contesto, e con gli aspri negoziati commerciali sulla Brexit in corso, non sorprende che la gestione del Covid della Gran Bretagna abbia avuto una pessima copertura sui media in Europa. Li potete vedere, politici e funzionari del continente, che alzano gli occhi al cielo di fronte alla combinazione di prestazioni scadenti e retorica adolescenziale.
E poi sono arrivati i vaccini. Prima di tutti: Pfizer, un’azienda americana. Ma il governo aveva creato una task force sui vaccini guidata da un altro amico di Johnson – nominata senza alcuna selezione. Ma il gruppo si è comportato davvero molto bene. Ha sostenuto il vaccino Pfizer nella fase iniziale e in una decisione che ha accelerato molto la campagna il governo ha concesso alla Pfizer un’indennità legale, proteggendola dall’essere citata in giudizio. L’Ue, avendo deciso per ottime ragioni di negoziare come un blocco, si è poi impantanata in questioni legali. Non c’era, infatti, alcun collegamento tra le buone decisioni della Gran Bretagna e la Brexit – sono stati utilizzati poteri esistenti per autorizzare il nostro approccio: avremmo potuto farlo in ogni caso, Brexit o non Brexit. Ma l’atavico desiderio di vantarci è stato irresistibile. Il ministro dell’Istruzione, Gavin Williamson, che secondo molti non si è comportato affatto bene durante la pandemia, ha dichiarato: “Abbiamo le persone migliori in questo paese e ovviamente abbiamo l’autorità regolatoria sanitaria migliore, molto meglio dei francesi, molto meglio dei belgi, molto meglio degli americani. Ciò non mi sorprende affatto, perché siamo un paese molto migliore rispetto a ognuno di loro”. Williamson, che non è famoso per la sua furbizia, ha poi detto di essere stato troppo leggero.
Un altro dei ministri di Johnson, Alok Sharma, si è lasciato conquistare dal bagliore rassicurante del nazionalismo sui vaccini. A dicembre, quando Pfizer ha avuto il via libera in Gran Bretagna, ha gonfiato il petto per dire: “Negli anni a venire lo ricorderemo come il giorno in cui il Regno Unito ha guidato l’umanità contro questa malattia”. Era una sciocchezza ignorante e imbarazzante. Il vaccino era stato trovato da un laboratorio guidato da due immigrati turchi in Germania, in collaborazione con un gigante farmaceutico americano, e lo stabilimento di produzione era in Belgio. L’ambasciatore tedesco nel Regno Unito aveva ragionevolmente risposto: “Perché è così difficile riconoscere questo importante passo in avanti come un grande successo internazionale?”.
E’ stata questa sconveniente esibizione di compiacimento britannico a portare molti europei, soprattutto il presidente francese Emmanuel Macron, a perdere la testa riguardo al vaccino di AstraZeneca? Lo chiedo perché sembra che negli ultimi due mesi alcuni importanti politici europei abbiano ceduto alla propria versione del nazionalismo dei vaccini – con effetti potenzialmente terribili.
AstraZeneca è stata un’altra buona scommessa della task force britannica sui vaccini. Ancora una volta, come con Pfizer, gli inglesi hanno comprato molte dosi, e di nuovo lo hanno fatto in anticipo. Forse c’è stata una predilezione a farlo poiché il vaccino è stato studiato all’Università di Oxford e AstraZeneca è una società anglo-svedese, ma Oxford è da tempo una potenza scientifica con una riconosciuta esperienza nel campo.
L’Agenzia del farmaco britannica ha approvato il vaccino AstraZeneca alla fine dell’anno utilizzando un potere emergenziale disponibile anche nell’Ue per l’Ema.
Sì, le statistiche sull’efficacia di Pfizer erano ancora più sorprendenti di quella di AstraZeneca, ma le cifre di quest’ultima erano di per sé molto impressionanti per chi conoscesse i vaccini. Ma questo era appunto il problema. La maggior parte di noi non sapeva molto sui vaccini, non ultimo il fatto cruciale che nessun vaccino è efficace al 100 per cento. In effetti, il vaccino antinfluenzale, che esiste da un po’ di tempo ha un’efficacia inferiore rispetto al vaccino AstraZeneca. E’ vero che il successo sugli over 65 negli studi AstraZeneca era piccolo e inferiore a quello di Pfizer, ma c’era comunque molta scienza immunologica solida che indicava che il vaccino avrebbe funzionato bene anche in quella fascia di età. L’autorità del Regno Unito e l’Ema, a poche settimane di distanze, hanno raggiunto le stesse conclusioni: era molto probabile che il vaccino avesse effetti benefici sugli over 65 anche se, in quella fase, era difficile essere precisi come avremmo potuto essere se il vaccino fosse stato in fase di sviluppo per i molti anni normalmente necessari per ottenere l’approvazione.
Inoltre la scienza indicava che il vaccino non ha causato danni a parte il fatto che alcuni hanno avuto una reazione durata un giorno – un piccolo inconveniente se unito agli enormi benefici.
Il vaccino AstraZeneca presenta vantaggi ben noti per un continente, anzi un mondo, che ha bisogno che miliardi di persone siano vaccinate rapidamente. Costa poco. Oxford ha insistito sul fatto che il vaccino avrebbe dovuto essere reso disponibile a prezzo di costo e AstraZeneca ha accettato. Ed è molto più facile da conservare e distribuire rispetto a Pfizer.
Con queste premesse, insomma, ci si aspettava un sacco di applausi in Europa. Invece il presidente Macron ha annunciato il giorno prima che l’Ema approvasse l’uso di AstraZeneca in tutte le fasce d’età: “Oggi tutto fa pensare che (AZ) sia quasi inefficace per le persone di età superiore ai 65 anni, alcuni dicono 60 anni o più”. Giusto per chiarirsi, ha aggiunto che il vaccino “non funziona come ci aspettavamo”. Già questo era strano. Poi il suo ministro per gli affari europei, Clément Beaune, è andato oltre, spinto in parte dalla decisione britannica, dichiaratamente unilaterale, di avere un divario maggiore tra la somministrazione delle due dosi di quanto originariamente previsto. Il regolatore britannico ritiene che l’obiettivo dovrebbe essere quello di portare più persone alla prima dose sulla base del fatto che fornisce una protezione molto significativa. Beaune ha dichiarato: “Gli inglesi si sono assunti più rischi, il che ha permesso loro di andare più veloci. Non vorrei avere qui quel che sta accadendo nel Regno Unito. E’ una strategia di vaccinazione massiccia con più rischi perché le loro condizioni di salute sono peggiori”.
Forse i francesi si sono così stufati del Regno Unito a causa della Brexit che pensano che tutti gli standard nella vita pubblica britannica siano marciti, che scienziati e regolatori siano i barboncini dei loro padroni politici, pronti a svilire la propria vocazione scientifica per placare Johnson e i suoi ministri. Forse sono infastiditi dal fatto che il vaccino francese di Sanofi non abbia funzionato (ma potrebbe ancora e chapeau se funziona). Ma in effetti l’accusa è stata che i britannici abbiano imbrogliato – o per citare Macron che, fino alla fine di gennaio, non eravamo “seri”.
Questo è stato un errore. Gli scienziati possono, e lo fanno, essere in disaccordo l’uno con l’altro, ma si presume che le prove scientifiche disponibili siano adeguatamente prese in considerazione.
E la scienza britannica è una cosa seria. I migliori consulenti scientifici e medici del Regno Unito sono diventati figure familiari nell’ultimo anno perché compaiono spesso nelle conferenze stampa del premier. Non sono figure politiche. Sono nominati da una giuria, scelta a sua volta per la propria esperienza. Non ci sono interferenze politiche. Ho conosciuto alcune delle persone che hanno ricoperto in precedenza queste posizioni ed è difficile trovare un gruppo più incorruttibile di questo. Per usare una frase vecchio stile: sono adulti.
Allo stesso modo la regolamentazione dei farmaci, compresi i vaccini, nel Regno Unito non è influenzata dalla politica o dal nazionalismo. Fino alla Brexit, l’Ema ha avuto sede per decenni a Londra, e per una buona ragione. (Ora è ad Amsterdam). Questa era una di quelle aree in cui la Gran Bretagna poteva legittimamente rivendicare competenza. Le persone coinvolte sono indipendenti, rigorose e dotate delle competenze necessarie. E’ inconcepibile che la rapida approvazione da parte del Regno Unito dei vaccini sia stata il risultato di pressioni politiche o che gli scienziati coinvolti siano stati presi dal panico.
Negli ultimi giorni l’ostilità verso il vaccino AstraZeneca è diminuita. Evidenze più positive arrivano quasi ogni giorno, e basate su milioni di persone che sono state effettivamente vaccinate. Il presidente Macron ora dice che sarebbe felice di avere questo vaccino, ma sono stati fatti molti danni. I francesi, più di molti altri, sembrano essere profondamente sospettosi riguardo alle vaccinazioni – questo nonostante duecentoventi anni di prove empiriche e il ruolo da protagonista svolto nella storia della vaccinologia da uno dei francesi più illustri, Louis Pasteur. L’ultima cosa di cui i francesi avevano bisogno era un’epidemia di analfabetismo scientifico all’Eliseo.
Angela Merkel è stata, prevedibilmente, un po’ più attenta con il linguaggio, ma solo ora sembra che ci sia qualche sforzo per convincere i tedeschi ad accettare il vaccino AstraZeneca. E, tragicamente, milioni di dosi sono lasciate inutilizzate in tutta l’Europa occidentale, mettendo a rischio inutilmente più persone e ritardando la ripresa della vita normale.
E’ stato sorprendente che, nonostante tutti i sospetti e l’ostilità degli ultimi due mesi, molti paesi dell’Ue si siano arrabbiati perché hanno ottenuto meno dosi di AstraZeneca. Questa è un’incoerenza politica e di sanità pubblica su larga scala. Stiamo vivendo una crisi di enormi dimensioni. Ora che gli scienziati hanno compiuto miracoli e ci hanno fornito vaccini che danno una via d’uscita dal Covid, abbiamo il diritto di aspettarci che i politici di tutti i paesi si comportino in un modo che si adatti alla gravità della situazione. Ci sono ampi margini di miglioramento.
Mark Damazer è stato vicedirettore di Bbc News, capo di Radio 4 della Bbc e poi nel Governing Body dell’emittente. Fino al 2019, è stato presidente del St Peter’s College di Oxford. Oggi è presidente della Booker Prize Foundation.