La frustrazione dell'Iran sotto “la pressione di massima” pure di Biden
Lo strangolamento economico voluto da Trump ha messo il regime sotto pressione e non è un mistero che a Washington si voglia cercare di sfruttare la situazione per cavarne fuori un accordo migliore
Dopo una settimana puntellata di minacce e accuse di tradimento, il direttore dell’Aiea, Rafael Grossi, ha imposto una tregua tra gli iraniani e i partner dell’accordo sul nucleare (Jcpoa). Si tratta di una tregua tecnica, Grossi ha tenuto a sottolinearlo, ma poche ore prima della sua conferenza stampa, una mozione di censura contro le ultime violazioni all’accordo da parte degli iraniani è stata ritirata ed è evidente che mentre gli esperti di Teheran torneranno ad incontrarsi con quelli dell’Agenzia (si parla di un primo round ad aprile e si auspica una risoluzione entro giugno) si potrà riaprire una finestra di opportunità anche tra l’Iran e gli Stati Uniti. Ma si tratta di una finestra più stretta di quanto si potesse immaginare solo alcune settimane fa. Auspicavano uno sprint verso il deal (il “freeze for freeze”, tu congeli le sanzioni e io congelo l’arricchimento dell’uranio e il resto) e invece si sono ritrovati dentro una maratona, ha notato un analista iraniano a proposito di Hassan Rohani, il presidente iraniano che credeva di poter tornare allo status quo ante e invece si ritrova ancora addosso l’ombra lunga di Trump.
Come in una lite tra bambini in cui l’unica cosa che conta è chi ha offeso per primo, Teheran in questi anni ha seguitato a puntare il dito verso Washington, pretendendo dagli americani la sconfessione delle sanzioni di Trump, ma Joe Biden non solo non ha rinnegato la “maximum pressure” del suo predecessore, ma sembra averci preso gusto. Lo strangolamento economico voluto da Trump ha messo il regime sotto pressione e non è un mistero che a Washington si voglia cercare di sfruttare la situazione per cavarne fuori un accordo migliore. Il che visto da Teheran è piuttosto frustrante. “Joint comprehensive plan of sanctions”, titolava due giorni fa il quotidiano iraniano in inglese Tehran Times, fotografando per una volta tanto l’umore della leadership iraniana quanto quello della popolazione fiaccata dalle sanzioni, dal Covid e da speranze nella ripresa economica che non si materializzano mai.
L’accordo c’è già, ha insistito in queste settimane il ministro degli Esteri Javad Zarif, non serve un accordo migliore e non può essere rinegoziato, non sognatevi di buttare sul tavolo altre questioni – i nostri missili, il sostegno alle milizie in Iraq ed in Siria e più in generale la nostra politica regionale – perché finirà male.
Ad aggravare il quadro agli occhi di Teheran è l’atteggiamento dei cosiddetti E3, ossia Francia, Germania e Regno Unito, che dopo aver condannato l’abbandono del deal da parte di Trump, invece di favorire un ritorno al perimetro negoziale del 2015 hanno assunto negli ultimi tempi posizioni piuttosto intransigenti nei confronti dell’Iran. Lo fanno per rinsaldare le loro credenziali transatlantiche e per placare israeliani e sauditi. Lo fanno perché la strategia complessiva è di incarnare il poliziotto buono (cinesi forse e russi soprattutto) e quello cattivo (Stati Uniti ed E3) e la convinzione maturata da dicembre in poi è che per fermarli si debba tornare ad alzare la posta, un po’ con le schermaglie verbali – “Cosa può fare un gatto costretto nell’angolo?” ha detto il ministro dell’Intelligence Mahmoud Alavi alludendo all’ipotesi di una revisione della fatwa di Ali Khamenei contro l’uso delle armi nucleari – e un po’ con il graduale allontanamento dagli obblighi sottoscritti.
La posizione prevalente dell’establishment a questo punto è che Teheran non rivedrà le sue posizioni fino a quando non sarà certa che l’Amministrazione Biden sia pronta a fare retromarcia sul “maximum pressure”. Un negoziato ci sarà, pensano gli insider nonostante le tensioni degli ultimi giorni, ma quando accadrà l’Iran dovrà far pesare tutto quello cui dovrà rinunciare. Addio arricchimento, benvenuti ispettori e di converso, però, anche addio sanzioni. A complicare il quadro ci sono anche le dinamiche interne all’élite iraniana: i conservatori e gli ultraconservatori, i cosiddetti “principalisti” che puntano a conquistare la presidenza potrebbero essere ostili a un ritorno troppo rapido al deal (e alla cancellazione delle sanzioni) per non rischiare di offrire una chance a un candidato centrista tendenza-Rohani. Ciò detto però, i giornali vicini ai pasdaran si sono dimostrati abbastanza cauti e persino il direttore di Javan, l’organo di stampa dei pasdaran, ha salutato con favore le manovre distensive verso l’Aiea. Il paradosso per Rohani è che, mentre a Teheran la leadership non è mai stata più convinta della necessità di tornare a parlare con gli Stati Uniti – Khamenei ha già bevuto il calice amaro nel 2015 ed è incline a dar prova di una nuova “flessibilità eroica” – gli iraniani non credono più né a lui, né alla possibilità che il deal serva davvero a qualcosa.