Il Foglio internazionale

Fin dove arriverà la Turchia?

Jean-François Colosimo spiega lo spirito di riconquista che anima Erdogan

Il rapporto tra il religioso e il politico è da sempre al centro della riflessione di Jean-François Colosimo, teologo, storico, professore all’Institut Saint-Serge di Parigi e responsabile delle Éditions du Cérf (la casa editrice dei domenicani francesi). Nella sua ultima opera, “Le Sabre et le turban”, Colosimo fa luce sui cent’anni di esistenza della Repubblica turca, dai tempi di Mustafa Kemal fino a Recep Tayyip Erdogan. E sottolinea la continuità dello spirito di riconquista turca. Di seguito, un’intervista della Revue des Deux Monde.

 

Revue des Deux Monde – La crisi attuale che vede scontrarsi Parigi e Ankara è rappresentativa della lunga relazione tra la Francia e l’Impero ottomano, e in seguito la Turchia? O al contrario si discosta dalla “politica di equilibrio” che starebbe alla base di essa?

Jean-François Colosimo – Dall’inizio della sua esistenza, la Francia sfugge all’accerchiamento dell’Europa continentale grazie alle sue facciate marittime. Dalla fine del Medioevo, il suo legame con il “Grande Turco” risulta per forza di cose ambivalente. L’altro importante stato rivierasco del Mediterraneo costituisce allo stesso tempo una minaccia e un contrappeso. Ma se c’è una ricerca di equilibrio, è proprio perché la relazione è in sé instabile. In Francia, la corrente turcofila, molto antica, è ancora vivace. A sentirla, Parigi e Istanbul sarebbero originariamente predestinate ad andare d’accordo e conserverebbero un atteggiamento di benevolenza reciproco. Questa vulgata regna dai corridoi del Quai d’Orsay (sede del ministero degli Esteri francese, ndr) alle sale di redazione. Certo, dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, la diplomazia francese non smette di imbastire progetti di avvicinamento con la Sublime porta che fanno scandalo a Roma. Certo, in seguito gli eserciti francesi non partecipano alle coalizioni cristiane che stoppano gli ottomani a Lepanto nel 1571 e a Vienna nel 1683. Certo, in tutto questo tempo gli scambi economici e culturali non sono assenti tra Versailles e Topkapi o tra Marsiglia e Smyrne. Ma non si può essenzializzare una serie di calcoli di realismo politico in affinità elettiva.

Come caratterizzare dunque questa relazione vecchia di cinque secoli sul piano geopolitico?

È una relazione di interesse geostrategico e utilitaria. Sotto il manto di una prossimità obbligata, la Francia cerca infatti di strumentalizzare il suo contendente orientale per prendere alle spalle i suoi avversari occidentali, principalmente gli imperi centrali atlantici. Nel Sedicesimo secolo, l’alleanza di Francesco I con Solimano il Magnifico si realizza contro l’Austria. Nel Diciassettesimo secolo, l’intesa di Luigi XIV con il gran visir Mustafa si concretizza contro la Polonia. Nel Diciottesimo secolo, l’accordo di cooperazione di Barras con Selim III si stringe contro l’Inghilterra. E nel Diciannovesimo secolo, l’intervento militare di Napoleone III presso la Sublime porta vacillante si verifica contro i russi. Ogni volta il bersaglio conta più del coadiuvante.

La nascita della Turchia moderna, nel 1923, sulle macerie dell’Impero ottomano, non ha temperato questo schema?

No, al contrario, il Ventesimo secolo lo prolunga. Tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, il sostegno della Terza Repubblica francese alla Repubblica kemalista nascente mira a contrastare la Germania. E negli anni Sessanta, l’appoggio di Charles de Gaulle all’ipotetica entrata di Ankara nella Comunità europea ha come obiettivo quello di ostacolare gli Stati Uniti e, più ampiamente, la Nato. Non senza esitazione, il generale ricorre alla tattica tradizionale dell’elusione. Sollecita la candidatura, ma elude l’adesione. Per lui, agganciare la Turchia all’Europa non significava integrarla a essa.

Se c’è una cosa che è rimasta invariata è dunque piuttosto l’opposizione di fondo tra Francia e Turchia?

Esatto. Un dispiegamento di manovre contingenti secondo la logica di rivalità che è predominante. Basti vedere come, fin dai primi segni del declino ottomano, a cavallo tra il Diciassettesimo e il Diciottesimo secolo, si impone l’iniziativa predatoria francese. Essa è sistematica tanto quanto il gioco parallelo delle alleanze. È l’altro versante della relazione, altrettanto continuo e coerente, ma apertamente conflittuale. Lo scontro è oggettivo poiché dalla supremazia nel Mediterraneo orientale dipende il controllo delle rotte verso i Balcani a ovest, verso il Caucaso a nord, verso il golfo Persico e verso il Corno d’Africa a sud. Senza sorpresa, troverete in queste zone il fronte dell’offensiva globale portata avanti da Recep Tayyip Erdogan nel 2020 e i punti di contro-fuoco che ha tentato di opporre Emmanuel Macron.

Quali sono state, in breve, le circostanze e le tappe di questo scontro tra la Francia e l’Impero turco?

Sotto la monarchia, è la creazione della rete di influenza che formano i cristiani d’oriente. Sotto la Restaurazione, è il supporto alle guerre di emancipazione nazionale nei Balcani. Sotto il Secondo impero, è la conquista dell’Algeria, l’intervento in Libano, le rivendicazioni dei Luoghi santi. Sotto la Repubblica, sono la concentrazione sul secondo Verdun che rappresenta il fronte di Salonicco e, con Londra, gli accordi Sykes-Picot, che segnano lo smembramento dell’Impero ottomano, a cominciare dal controllo dei suoi possedimenti nel Levante e la loro trasformazione in stati-nazione. Al termine della Grande Guerra, Parigi si accorda con Londra per scuoiare “l’uomo malato dell’Europa”, che figura nel campo dei vinti. Nel 1920, il trattato di Sèvres prevede un riassetto drastico del territorio dell’attuale Turchia: l’internazionalizzazione di Istanbul, la concessione della Tracia occidentale e della costa egea alla Grecia, la creazione di una grande Armenia e di una bozza di Kurdistan riducono automaticamente l’ex impero all’altopiano che circonda Ankara. Ciò a cui dice no Mustafa Kemal, lanciando la sua guerra d’indipendenza, vincendola e imponendo l’esatto contrario tre anni dopo, nel 1923, con il trattato di Losanna.


Quali sono le ragioni dell’attrazione che esercita l’Impero ottomano sull’immaginario europeo in generale e francese in particolare?

I motivi sono molteplici e contradditori. Anzitutto, c’è la forza, allarmante. Impossessandosi di Costantinopoli, gli ottomani hanno dato prova di una rara capacità di conquista, che estenderanno a nuovi territori nei due secoli successivi. Fino a formare al loro apogeo, nel Sedicesimo secolo, uno dei più grandi imperi che il mondo abbia mai conosciuto, presenti in quattro mari e tre continenti. In seguito, viene la mescolanza, rassicurante. Dietro la Sublime porta, c’è Bisanzio, e la civiltà che ne deriva consiste in una vasta sintesi tra l’islamità e la romanità. L’oriente-occidente che rappresenta fornisce una chiave e una porta facili per accedere all’Asia. Infine, si sovrappone la diversità, seducente. Da Algeri a Belgrado, da Sana’a a Tbilisi, si estende un incredibile mosaico di etnie dalle lingue, dai riti, dai costumi e dalle arti disparati, che è in contrasto con i processi di omogeneizzazione che prevalevano allora nell’Europa occidentale.

Nel caso del genocidio commesso contro gli armeni nel 1915, si parla di ideologia panturca. Che ruolo ha avuto la religione?

Il panturchismo, progetto di rilancio concorrente del panislamismo e nato nel Diciannovesimo secolo, è la molla del genocidio: gli armeni, dal punto di vista geografico, sono un ostacolo alla riunione dei popoli turcofoni in un unico grande stato, dall’Asia minore all’Asia centrale. Devono dunque essere spazzati via per sempre. Ma come è stato mostrato dalla recente storiografia, l’esecuzione del genocidio avviene in nome del jihad. Nel 1915, per mobilitare i curdi nel sud-est anatolico, Talat Pascià, il capo del triumvirato dei Giovani Turchi invoca la guerra santa. Devasta tanto gli assiri quanto i siriaci del Tur Abdin o i greci del Ponto. Tre anni dopo, nel 1918, Ismail Pascià, il suo secondo, conquista Baku e solleva fra gli azeri un’“armata islamica del Caucaso” per sterminare gli armeni della regione.

Con il suo intervento nel Nagorno Karabakh, Erdogan non cerca di provocare, secondo lei, uno scontro di civiltà?

Tragicamente, gli armeni apostolici hanno dovuto far fronte all’alleanza tra i turchi sunniti e gli azeri sciiti, dovendo allo stesso tempo subire l’abbandono cinico da parte dei russi ortodossi. La verità è che il Nagorno Karabakh avrebbe dovuto rappresentare una causa universale e che l’intero pianeta ha abbandonato gli armeni alla più estrema delle solitudini. Il che costituisce un brutto presagio per il futuro del sentimento di umanità.

Per quanto riguarda l’Armenia, Emmanuel Macron ha manifestato il suo sostegno, mentre il Quai d’Orsay ha sostenuto una neutralità nel conflitto. Come si spiega questa discordanza?

Il Quai d’Orsay, turcofilo per tradizione, è popolato da vecchi il cui orologio si è fermato alla francomania dei primi anni della Turchia moderna e da giovani agitati che vorrebbero essere paragonati ai neoconservatori americani per la loro frenesia atlantista. Invitato dalla Costituzione francese a indossare abiti gollisti, Emmanuel Macron ha esternato gesti e parole di circostanza, ma non è riuscito a ottenere dall’Unione europea delle sanzioni economiche che avrebbero potuto indebolire Erdogan. Il reis è forte solo con le nostre debolezze. Ingigantisce la sua potenza per fare credere alla sua superpotenza. Ma il suo potere è più precario che mai. Ha perso i comuni di Ankara e Istanbul. Non è più il mago della crescita. La povertà aumenta. L’opposizione si raggruppa. Gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti in prigione o in esilio resistono. Basterebbe un embargo per cambiare la situazione. Ma la Germania, il vero alter ego della Turchia, mette il suo veto.

Fino a dove si spingerà la Turchia?

Non oltre la soglia che fisseremmo nei suoi confronti se sapessimo reinserirci nella storia.

Traduzione di Mauro Zanon

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