editoriali
La condanna annullata di Lula
L’ex presidente brasiliano potrà ricandidarsi nel 2022. Garantismo allo specchio
"Livre e inocente”, gridavano ieri i sostenitori dell’ex presidente brasiliano, e lanciavano su Twitter l'hashtag atteso e liberatorio, #LulaPresidente2022. Un giudice della Corte Suprema, Edson Fachin, ha annullato le condanne inflitte a Luiz Inácio Lula da Silva dal pool di magistrati titolari dell’inchiesta Lava Jato. L’effetto immediato è che potrà candidarsi il prossimo anno, contro Jair Bolsonaro, come avrebbe già voluto fare (ed era anche molto popolare) nel 2018, se soltanto i magistrati non avessero deciso di rovinargli i piani, in particolare quel Sérgio Moro che è poi diventato ministro della Giustizia di Bolsonaro stesso. Da qui, quell’inchiesta di tangenti e di prove irregolari era sempre sembrata una rivisitazione brasiliana di Mani Pulite, per di più su un presidente che aveva portato al potere il Partito dei lavoratori e aveva fatto una rivoluzione a sinistra che aveva attirato e ammirato buona parte dei leader politici anche di qui (e Moro pure aveva avuto la sua connection italiana, Davigo e Di Pietro).
Là, nel tormento di una politica scandita da impeachment rissosi e dall’ascesa del Trump locale, la condanna a dodici anni di Lula aveva sconquassato ogni cosa, e lui era diventato il simbolo di un’ingiustizia che non riguardava soltanto lui. Molti gli consigliarono di scappare, lui si consegnò con qualche giorno di anticipo, dicendo che avrebbe continuato a combattere. Ieri il giudice Fachin ha dato seguito alle controindagini che ci sono state dopo la condanna (con le intercettazioni immancabili, in cui Moro usciva con una determinazione molto affilata) e ha stabilito che ci fu un errore di competenze e che ora i dossier passano alla giustizia del distretto federale. Intanto tutto annullato, si torna a far politica, a sognare la sfida mancata, a riflettere anche sul rapporto tra garantismo, giudici, sinistra, visto da là, visto da qui.