Ritorno a New York City
L’esodo dalla città spenta dalla pandemia è stato grande e le conseguenze su occupazione, turismo e conti sono pesanti. Ma ora ti regalano mesi di affitto, i vaccini sono arrivati e molti si riaffacciano in città
New York è morta. Non Tornate. L’enorme tabellone pubblicitario è comparso per la prima volta in Sunset Boulevard, a Los Angeles, il 27 di gennaio. Qualche giorno dopo un aereo sorvolava le spiagge di Miami con attaccato un banner con la stessa scritta: “New York is Dead. Don’t Come Back”. L’ideatore della campagna si chiama Graham Fortgang, un imprenditore (ha fondato la catena dei Macha Bar) e artista che insieme alla fidanzata Samara Bliss ha progettato l’opera dal suo studio di Williamsburg. Alle varie televisioni che in questi giorni li hanno intervistati i due hanno ripetuto che il loro progetto è “una lettera d’amore per tutti coloro che invece di lasciare hanno scelto di raddoppiare e ricostruire New York insieme”, ma anche un commento “a tutti quelli che se ne sono andati mentre la città era chiusa, quando le persone erano bloccate nei loro piccoli appartamenti e le strade erano vuote. Alcuni, come l’ex presidente degli Stati Uniti, hanno detto che New York era morta”.
La litania sulla morte di New York è una cosa che chi abita qui ha sentito ripetere allo sfinimento dal marzo del 2020 a oggi, declinata nei modi più disparati, incluso un editoriale scritto dall’imprenditore e proprietario del Comedy Club, James Altucher, che motivava il suo trasferimento in Florida con il fatto che midtown fosse vuota – era agosto: la prima ondata era appena passata ma si sapeva che ce ne sarebbe stata un’altra – e che tutti i suoi ristoranti preferiti fossero chiusi. Una delle risposte più efficaci all’articolo di Altucher arrivò il giorno dopo sul New York Times da Jerry Seinfeld: “Questo è uno dei momenti più difficili che abbiamo avuto. Ma una cosa so per certo: l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno nel bel mezzo di così tante sfide è un cretino su LinkedIn che si lamenta: Tutti se ne sono andati! Rivoglio il 2019!”. Salvo poi scoprire che anche Seinfeld stava scrivendo dalla sua casa agli Hamptons.
Che Manhattan si sia svuotata è evidente e lo si capisce dalle piccole e dalle grandi cose. Quelle piccole: la metropolitana è mezza vuota e c’è sempre un posto per sedersi, il traffico è diminuito, al ristorante c’è sempre posto (dal 14 febbraio si può di nuovo mangiare all’interno, dopo un anno di solo outdoor dining, termine chic per indicare il cenare letteralmente in strada, sul marciapiede quando va di lusso), il medico e l’estetista ti danno appuntamento nel giro di qualche giorno invece che settimane, i proprietari delle società di traslochi sono i nuovi ricchi. Quelle grosse: il crollo degli affitti.
“Gli affitti effettivi netti mediani – si legge sul rapporto annuale dell’agenzia Douglas Elliman – ovvero gli affitti effettivamente pagati dalle persone, inclusi sconti e incentivi, sono diminuiti del 17 per cento fino ad arrivare a 2.800 dollari al mese”. Per Manhattan una miseria. Su StreetEasy, il sito di riferimento per chi cerca casa, si leggono annunci al limite della disperazione: due mesi gratis! Spese incluse! Nessuna spesa di agenzia! Ci sono così tanti appartamenti disponibili a prezzi ottimi che anche chi non aveva in programma di cambiare casa un pensierino oggi lo fa. Lo sport cittadino è diventato rinegoziare il proprio contratto. Il real estate è l’argomento che domina tutte le conversazioni. (Nota personale: io e mio marito dopo aver visto del tutto per caso, sul gruppo Facebook dell’Upper West Side, un appartamento che ci piaceva, abbiamo fatto un’offerta e il primo aprile ci trasferiamo in una casa che tre anni fa non ci saremmo mai potuti permettere. Alla proprietaria abbiamo strappato due mesi di affitto gratis e la possibilità di rinnovare il contratto il prossimo anno allo stesso prezzo, indipendentemente dal mercato. Gli inquilini precedenti erano una coppia di indiani in attesa del primo figlio che hanno deciso di trasferirsi upstate per stare più vicino alla famiglia di lei).
Iniziata a marzo la fuga da New York è proseguita senza interruzione fino a dicembre. I ricchi si sono diretti verso gli Hamptons ovvero la seconda casa al mare, le dune di sabbia, i lobster roll da 25 dollari. Oppure Upstate, ovvero la campagna a nord-ovest, i fienili pittoreschi, i tramonti sull’Hudson, i negozi di antiquariato in città come Hudson, Rhinebeck o la più famosa Woodstock che diede il nome al festival, anche se in realtà non si tenne lì. Le famiglie sono andate in New Jersey – ancora molto gettonata Maplewood, della quale il New York Times nel 2014 scriveva che era la Brooklyn del New Jersey – o a Long Island in cerca di più spazio e magari un giardino per far giocare i bambini. “C’è stata un’impennata della domanda da parte delle giovani famiglie di case più grandi con spazio all’aperto” dice Liz Nunan, presidente della società immobiliare Houlihan Lawrence, specializzata nella vendita di case nei sobborghi intorno a New York City: il 2020 è stato il suo anno migliore.
Chi ha lasciato lo stato è andato in Florida, in California o in Texas, una tendenza che però era già iniziata da molto tempo per ragioni che nulla hanno a che fare con la pandemia: dal 2010 New York ha perso 1,4 milioni di abitanti. La pandemia ha solo accelerato l’esodo. Tra luglio 2019 e luglio 2020 la popolazione è diminuita di 126.355 persone, un calo dello 0,65 per cento. Tutti, nel proprio giro di amici, ne ha almeno uno che se ne è andato. Trey – imprenditore, sposato, con una figlia di due anni e da sempre amante di Brooklyn – ha giustificato così la sua fuga a Dallas, dove ha i genitori e dove lui e la famiglia si sono trasferiti a luglio: “In questo momento New York non ha nulla da offrirmi”. La pandemia ha chiuso i teatri, svuotato gli uffici, fermato il turismo e trasformato lo shopping e la ristorazione in attività da intraprendere a proprio rischio, sventrando industrie che impiegavano un quinto della forza lavoro della città. Secondo le stime di un gruppo imprenditoriale locale, Parternship for New York City, almeno un terzo delle piccole imprese della città potrebbe non sopravvivere. La maggior parte delle aziende nel centro della città, quelle con gli uffici a midtown, non si aspetta che il personale torni in sede a pieno regime, almeno non per ora (a dicembre solo il 10 per cento era rientrato in ufficio). La situazione ha portato il tasso di disoccupazione della città a oltre il 12 per cento – quasi il doppio della media nazionale – e ha aumentato il numero dei senzatetto.
Senza i 70 milioni di turisti l’anno che immettono nell’economia locale 45 miliardi di dollari, la città si trova in una crisi fiscale così profonda che alcuni analisti la paragonano a quella del 1975, quando New York City si trovò sull’orlo della bancarotta. Per i pessimisti la città dovrà affrontare nei prossimi quattro anni un divario di bilancio di 13,2 miliardi di dollari e finora il suo governo ha compiuto pochi sforzi tangibili per colmare il deficit. La crisi è particolarmente grave per l’agenzia statale che ha un impatto più diretto sulla vita dei cittadini, la Metropolitan Transportation Authority. Per gli ottimisti, la situazione del 1975 e quella di oggi non si possono confrontare: prima della pandemia le finanze della città erano in ottimo stato. “Il ritorno di New York City ci sarà, ma sarà graduale”, ha detto il sindaco Bill de Blasio nella sua presentazione del budget lo scorso agosto. In effetti, da allora, il suo cauto ottimismo è stato confermato dai segnali che indicano che l’effetto della pandemia sulle finanze della città è stato meno doloroso di quanto inizialmente previsto, con un incasso di 748 milioni di dollari di entrate in più rispetto alle previsioni durante il trimestre che va da giugno a settembre. “La forza lavoro dei colletti bianchi sta ancora pagando le tasse”, dice Nicole Gelinas del Manhattan Institute, un think tank di orientamento conservatore. “Non c’è nessuno, ma stanno ancora pagando le tasse”.
Lo scorso dicembre alla domanda su come avesse intenzione di fermare l’emorragia di cittadini, il sindaco aveva risposto: “Non ho intenzione di supplicare la gente a restare. So che questa città si riprenderà. Lo so. E so che altri arriveranno. Lo hanno fatto per generazioni. Non possiamo sopravvalutare questo periodo della storia. E’ un momento di passaggio. E poi ci sarà il vaccino…”. Non aveva torto. L’arrivo dei vaccini (da venerdì scorso è disponibile anche il Johnson & Johnson) e l’implementazione di un piano che sembra funzionare e che è destinato a migliorare – più di due milioni e trecento mila di dosi già somministrate – sembra aver dato sollievo. La famosa luce alla fine del tunnel che in termini di coronavirus si traduce in un accenno di ritorno alla normalità: a febbraio, dopo le scuole elementari, hanno riaperto anche le medie, la capienza dei ristoranti all’interno è passata dal 25 al 35 per cento, il 5 marzo hanno riaperto dopo un anno i cinema con distanziamento e massimo 50 persone in sala. Il segno più positivo, poi, è la presenza alla Casa Bianca di un’Amministrazione non più ostile che garantisce sostegno economico: il pacchetto da 1,9 trilioni di dollari appena approvato include 350 miliardi per i governi locali di stati e città. “Ad agosto qualcosa è scattato, il mercato è attivo, si è ripreso lentamente e poi nell’ultimo mese c’è stata un’impennata”, dice Ivana Lo Stimolo, agente immobiliare per Brown Harris Stevens e fondatrice del gruppo New York Italian Women, un occhio sul mercato e un orecchio nella comunità italiana di Manhattan. “Le vendite degli appartamenti sono il 43 per cento in più rispetto a un anno fa”.
I broker dicono che sono due i gruppi che stanno guidando la domanda. I newyorchesi che se ne andarono nei primi giorni della pandemia a marzo o aprile e che ora stanno tornando; e le coppie e famiglie che hanno venduto le loro proprietà in periferia facendo grandi guadagni e che ora stanno testando le acque della città per la prima volta, visti i prezzi migliori. “C’è sicuramente un ritorno dei newyorchesi, anzi direi che loro in questo momento rappresentano il 90 per cento del mercato”, conferma Lo Stimolo. “Vengono a vedere le case durante il fine settimana, spesso sono coppie giovani che prima non si potevano permettere di comprare e che oggi capiscono che è l’ultima occasione per acquistare a un prezzo ragionevole. Chiedono appartamenti già ristrutturati, con pochi o zero lavori da fare, e a differenza di prima della pandemia la cucina – che in passato alcuni neanche volevano – è diventata una variabile importante nella scelta della casa”. Certo, una piena ripresa nel settore immobiliare è ancora lontana e c’è un numero record di appartamenti vuoti. A dicembre erano 13.718, più di due volte e mezzo rispetto al totale dello scorso anno.
Eppure, qualcosa si muove, lo si capisce dai numeri, ma anche solo camminando per strada. Come dicono qui: “Don’t bet against New York City”. Sarà banale orgoglio, però funziona. Che è poi quello che pensano giovani artisti come Fortgang e Bliss, quelli di “New York is Dead. Don’t Come Back”. Dopo le provocazioni di Los Angeles e Miami, il programma è di spostare la campagna proprio a New York con manifesti per le strade di Brooklyn, nel centro di Manhattan e nella stazione della metropolitana Second Avenue/Bowery. Accanto allo slogan originale, quelli nuovi – “Trasferirsi a L.A. non risolverà i tuoi problemi”; “Siamo solo io e te qui adesso”; “New York Is Not Dead. E’ solo Underground” – sono secondo la loro definizione “frasi romantiche” per incoraggiare a vedere il lato positivo e per celebrare chi è ancora qui. “New York non è morta, ma è in fin di vita”, ha scritto sul blog del Manhattan Institute Michael Hendrix, direttore della politica statale e locale. “Se la sua ripresa si misurerà in mesi, anni o decenni, sarà determinato principalmente dal grado di leadership che vedremo in città”. Come dire che le prossime elezioni per il sindaco che si terranno a novembre saranno decisive.
Fuori gioco de Blasio che è già stato in carica otto anni e non si può ricandidare e visti i grossi guai che sta attraversando il governatore Andrew Cuomo – accusato di aver falsificato i dati sulle case di riposo e di molestie da tre ex collaboratrici – la ricerca di chi guiderà la città alla ripresa economica e sociale è già cominciata. Tra i candidati c’è anche l’imprenditore Andrew Yang, conosciuto a livello nazionale perché nel mucchione dei candidati alle primarie del Partito democratico (si ritirò l’11 febbraio 2020, subito dopo l’appuntamento del New Hampshire, comunque dopo Kamala Harris che smontò il suo comitato a dicembre del 2019). Nato e cresciuto qui, figlio di immigrati, laureato alla Columbia e con i figli nella scuola pubblica, Yang è uno di quelli che durante la pandemia se n’è andato, preferendo una casa a New Paltz, adorabile cittadina universitaria piena di ristorantini e di negozi di seconda mano a 130 chilometri a nord di New York, nella Hudson Valley, uno di quei posti dove a novembre si vanno a vedere gli alberi tutti rossi. Quando la stampa glielo ha fatto notare – “Andrew Yang ha lasciato New York quando il Covid era in crescita. Adesso vuole diventarne sindaco”, ha intitolato Politico – lui ha risposto che sì, è andato via ma solo perché nella seconda casa di campagna ha quattro stanze da letto invece di due e con i ragazzini – di cui uno autistico – che fanno le lezioni da casa, stare nell’appartamento di Hell’s Kitchen era un incubo. Per alcuni, una risposta che trasuda di privilegio. Per altri, un momento in cui identificarsi. Per ora sembrano prevalere i secondi: Yang è in testa nei sondaggi, sembra già l’uomo da battere.