il re dei vaccini

Alla velocità di Bourla

Micol Flammini

Il Mediterraneo, l’America, Israele  e il senso della storia. Il ceo di Pfizer ha spinto la corsa ai vaccini cambiando  ogni regola

Il vantaggio di Albert Bourla, il ceo greco di origine ebraica a capo della società farmaceutica americana Pfizer, è stato capire che nulla, con la pandemia, si sarebbe mosso più alla stessa velocità. Tutto sarebbe stato più rapido, tutto avrebbe dovuto assumere un ritmo diverso, quello della corsa. Tutto, a cominciare dalla scienza. L’espressione velocità della luce era la più pronunciata alle sue riunioni  e quel concetto, la capacità di immaginare un mondo più veloce, nel bene e nel male, non l’ha abbandonato neppure adesso. Perché il vaccino è stato trovato, ma la corsa non è finita: bisogna produrlo, distribuirlo, aggiornarlo. E  la velocità è sempre la stessa: quella della luce. 

Durante una delle sue prime riunioni con i membri dei gruppi che si occupano della ricerca e della produzione di vaccini dell’azienda americana, gli scienziati avevano lavorato fino a tardi, arrivarono all’appuntamento stremati, ma contenti di poter dire che il vaccino poteva essere pronto per il 2021. Bourla li ringraziò, disse loro che avevano fatto un lavoro straordinario, ma che non era ancora abbastanza. Bisognava spingersi oltre, rifare tutto, ripensare il modo di lavorare, imparare a conoscere il rischio, a conviverci, cambiare tutti gli obiettivi. “Pensate in termini diversi, disse Bourla ai presenti, pensate di avere un libretto degli assegni aperto, di non dovervi affatto preoccupare di questo. Pensate che le cose da adesso vadano fatte in parallelo e non in sequenza. Pensate che avremo bisogno di mettere su la catena di produzione del vaccino prima di sapere se effettivamente funziona. Se non funzionerà, di questo me ne occuperò io. Lo cancelleremo, lo butteremo via”. E’ Nathan Vardi di Forbes a riportare le parole della riunione ed era maggio quando la rivista uscì con Bourla in copertina: “Perché Pfizer potrebbe essere la migliore opzione per realizzare un vaccino entro l’autunno”. 

 


È un beterinario di Salonicco, i suoi genitori sopravvissero all’invasione nazista e all’Olocausto. Ha imparato a conoscere il “senso dell’urgenza”


 

Pfizer è una delle aziende farmaceutiche più grandi del mondo, ma Bourla le ha messo in mano la determinazione per arrivare al vaccino. A febbraio si accorse che il Covid-19 non si sarebbe fermato in Cina e la prima cosa che fece fu svegliarsi prestissimo il lunedì successivo e inviare istruzioni ai vertici della Pfizer. Bourla ha chiesto ai dirigenti scientifici di assicurarsi che i laboratori dell’azienda potessero continuare a rimanere aperti in sicurezza – nessuno stabilimento Pfizer ha chiuso, neppure per un giorno – e ha detto subito che non c’era alternativa: Pfizer avrebbe dovuto contribuire a fornire una soluzione medica alla pandemia, che ancora non chiamavamo così. Ha dato disposizione di fare un elenco dei farmaci Pfizer che sarebbero stati molto richiesti durante l’emergenza e di organizzare la produzione in modo che non ci sarebbero stati colli di bottiglia. Bourla aveva appena deciso che stava orientando l’azienda verso la lotta al Covid. Non tutti erano d’accordo, ma bastò poco per capire che aveva ragione. Scott Gottlieb, ex capo della Food and Drug administration e direttore di Pfizer, ha raccontato a Forbes che Bourla era convinto che fosse dovere dell’azienda mettere a disposizione della lotta contro il virus le sue enormi capacità per “inventare un vaccino che potrebbe cambiare il corso della storia umana”. 

 


Pfizer è una delle aziende americane più grandi al mondo, Bourla le ha messo in mano la determinazione per arrivare al vaccino


 

“Albert Bourla – ha detto uno dei suoi ex capi, Ian Read – ha il senso dell’urgenza” e ha capito dall’inizio che tutta l’umanità si trovava davanti alla storia, a un momento difficilissimo come non c’erano da anni e Bourla ha afferrato al volo che la possibilità di intervenire sul corso della storia e invertirlo era nelle sue mani.  “Se non lo facciamo noi, allora chi lo fa?”, ha detto ai suoi collaboratori che rimasero tutti esterrefatti quando il ceo  convocò il 16 marzo i dirigenti dell’azienda per dire: “Non è tutto come al solito, questa volta non saranno i rendimenti finanziari a guidare le nostre decisioni”. Aveva parlato da qualche giorno con Ugur Sahin, l’immunologo tedesco di origine turca che ha fondato assieme a sua moglie la BioNTech. Sahin aveva letto su Lancet un articolo sul   virus  e proprio come Bourla aveva capito che non era una questione cinese, che bisognava correre, muoversi, arrivare per primi, mettersi a studiare per trovare il modo per trovare un vaccino. Nel suo laboratorio Sahin aveva già la soluzione, una proposta, i suoi studi sull’Rna messaggero, una tecnologia nuova, in sperimentazione, che secondo lo studioso turco poteva aiutare a realizzare un vaccino contro la Sars-CoV-2. Bourla e Sahin avevano già collaborato in passato: nel 2018 avevano avviato delle sperimentazioni assieme, sempre basate sull’Rna messaggero, per realizzare dei vaccini antinfluenzali. Non sono mai arrivati sul mercato ma lo scienziato turco aveva capito che era questo il momento di riprovarci e che nessun partner sarebbe stato migliore di Pfizer. Nessun partner migliore di Bourla, che nel frattempo era diventato ceo dell’azienda e con il quale era nato un rapporto di amicizia fatto di una visione comune della scienza e di passione per il Mediterraneo. Di Mediterraneo è piena questa storia, perché è dal Mediterraneo che inizia tutto e dove molto accade. Ma per ora siamo a New York, sulla 42esima strada, a Manhattan, e Bourla decide di firmare una lettera di intenti in cui Pfizer mette tutte le sue enormi capacità di produzione, di regolamentazione e di ricerca a disposizione di BioNTech, che porta invece con sé la tecnologia. Per il progetto Bourla spende un miliardo di dollari, sotto gli occhi ancora esterrefatti dei dirigenti della sua azienda, “non ho intenzione di perderli, ma sì, se il vaccino non funziona li perderemo tutti”. Parallelamente avvia la sperimentazione di quattro vaccini diversi e decide di rendere pubblico il piano di Pfizer, di condividere la sua ricerca con altre aziende farmaceutiche rivali. E quando durante  una riunione gli domandano cosa sarebbe accaduto se Pfizer non fosse stata l’unica ad avere successo, lui risponde: sarebbe il miglior risultato possibile. 

 

Il senso dell’urgenza e il senso della storia procedono spesso insieme e i colpi della storia, le ragioni della fortuna, anche quelle spaventose, Bourla li conosce bene. E’ nato a Salonicco in una famiglia ebrea sefardita, suo padre e sua madre erano sopravvissuti all’invasione nazista e all’Olocausto. Lui, Mois, perché si trovava fuori dal ghetto quando venne rastrellato. Era insieme a suo fratello Into e a suo padre Abraham, ma dentro al ghetto erano rimasti sua madre e altri  due fratelli. Per questo il padre decise di consegnarsi – lui, sua moglie e gli altri due figli sarebbero stati tutti deportati ad Auschwitz – ma chiese a Mois e Into di scappare, di nascondersi, di sopravvivere. La madre di Albert Bourla, Sara, era invece l’ultima di una famiglia con sette figli. Una delle sue sorelle si era convertita al cristianesimo e la famiglia ruppe i rapporti con lei, ma fu suo padre a richiamarla poco prima che tutti venissero deportati per chiederle di prendere con sé Sara e di nasconderla. Sara in seguito fu arrestata e rischiò la fucilazione, ma erano gli ultimi giorni dell’occupazione nazista e riuscì a salvarsi. E’ nata così la famiglia Bourla, sotto i colpi della storia. Suo padre e suo zio misero su un negozio di alcolici a Salonicco, dove è nato Albert che prestissimo si appassionò di animali e decise di studiare per diventare veterinario. Il percorso  portò questo veterinario greco inaspettatamente a Pfizer, nel 1993, prima nella sede greca, poi in Polonia, in Belgio e infine negli Stati Uniti. Nel 2014 era un dirigente di alto livello e nel 2019 fu nominato amministratore delegato. 

 


Chiese ai suoi dipendenti di ripensare tutto, di scordarsi i profitti, di familiarizzare con il rischio, di fare bene le cose “per salvare il mondo”


 

Il suo primo passo da ceo fu quello di togliere un ingombrante tavolo marrone dalla sala riunioni, niente tavoli, soltanto sedie, disposte in cerchio. Sulle pareti chiese di appendere le foto di pazienti, l’importante era ricordare che il vero scopo di ogni singolo dipendente dell’azienda è quello di aiutare. L’idea fu contagiosa, anche gli altri iniziarono a mettere sulle loro scrivanie le foto dei pazienti.
La corsa al vaccino alla velocità della luce è stata piena di momenti di difficoltà, i thermal shippers da inventare, la distribuzione che all’inizio ha sollevato molte critiche e uno su tutti: la Pfizer negli ultimi anni aveva ridimensionato la sua ricerca antivirale, non possedeva un laboratorio in cui lavorare con il virus vivo in sicurezza. Bourla temeva che questa mancanza avrebbe ritardato il processo, ma l’azienda ha deciso di appoggiarsi a laboratori esterni, anche in Europa, iniziando così una collaborazione intensa e incessante tra le due sponde dell’Atlantico. Quello prodotto da Pfizer-BioNTech è stato il primo vaccino occidentale a essere registrato e approvato, il primo ad aver fatto sperare che la parola fine a questa pandemia potesse essere messa, più prima che poi. 

 

Bourla, scrive Bloomberg, in questi ultimi mesi ha assunto un ruolo simile a quello di un capo di stato, le chiamate con presidenti e premier sono frequenti, ininterrotte. Ma c’è un primo ministro con cui Albert Bourla ha instaurato un rapporto particolarmente intenso, e anche questo corre lungo le rive del Mediterraneo, passa per l’America e arriva fino a Israele, il paese che ha organizzato la campagna di vaccinazione più efficiente al mondo. 
Netanyahu era all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv quando a fine dicembre dello scorso anno sono arrivate le prime dosi di vaccino Pfizer-BioNTech. C’è aria di elezioni in Israele, per la quarta volta in meno di due anni, e il primo ministro, che durante la pandemia si è comportato con molta cautela, ma la cautela non è bastata a frenare il virus, ha intuito il potenziale elettorale di una campagna di vaccinazione rapida, seria, veloce, con la promessa di dare agli israeliani la possibilità di ricominciare a fare “per primi quello che il mondo vorrebbe fare”: vivere come eravamo abituati a vivere. I contatti tra Netanyahu e Bourla sono stati moltissimi. Bibi a gennaio si è vantato di aver parlato con il ceo di Pfizer almeno diciassette volte, persino alle due del mattino: “E’ un grande amico di Israele”. Bourla sostiene siano state molte di più, “almeno trenta, era ossessivo”. Simpatia personale, la stessa passione per l’arrivare per primi, per l’efficienza, la velocità che si ferma a un passo dalla rapacità: alcuni gridarono allo scandalo accusandolo di insider trading quando Bourla ha venduto  parte delle sue azioni Pfizer, a un prezzo vicino ai massimi, con un ricavo di 5,6 milioni di dollari il giorno stesso in cui l’azienda ha annunciato gli ottimi dati provvisori sull’efficacia del suo vaccino nella terza fase di sperimentazione. Ma non era soltanto Bourla ad avere molto da dare a Gerusalemme, era anche Israele a poter dare molto a Pfizer. Netanyahu ha offerto di pagare trenta dollari a dose, secondo alcuni media israeliani quarantasette, più del doppio dell’Ue e ha accettato di condividere i dati del vaccino. Era un test perfetto di efficacia su larga scala, materiale molto prezioso per l’azienda farmaceutica, vitale per gli israeliani, essenziale per la campagna elettorale di Benjamin Netanyahu. Il premier ha spesso bisogno di mani da stringere per le elezioni, nei cartelloni dell’ultimo voto, il due marzo dello scorso anno,  appariva lui con Donald Trump in una stretta di mano quasi fraterna, “lo riabbraccerei – ha detto Netanyahu in una recente intervista al Jerusalem Post – io abbraccio chi sostiene le mie politiche”. Ma ora non avrebbe senso proporre l’ex capo della Casa Bianca come compagno di immagine e Bourla rappresenta un’alternativa perfetta. Così il ceo greco è entrato nella campagna elettorale di Gerusalemme – “Pfizer non risponde alle chiamate degli altri”, ha detto Bibi intendendo i suoi rivali politici, “risponde alle mie” – e rischiava anche di rimanerci incastrato. Tra i due c’è un bel rapporto fatto di lunghe telefonate e amicizia, di rapporti strettissimi tra America e Israele, ma Bourla che stava per partire per una visita dal forte sapore elettorale in Israele alla fine non è più andato. E non si sa se per le polemiche o se per la ragione ufficiale: non tutti i membri del suo staff hanno ricevuto la seconda dose del vaccino, Bourla l’ha ricevuta giovedì. 

 


Bibi dice di avergli  parlato almeno diciassette volte: “E’ un grande amico di Israele”. Bourla sostiene siano state molte di più


 

In un anno il ceo di Pfizer ha trasformato un’azienda, ha reso possibile l’esistenza del vaccino, si è trasformato in uno degli uomini più ascoltati, più voluti, più cercati. Tutto per quel suo carattere, irrequieto. E per quella sua intuizione, la velocità della luce. “Tornavo a casa e i miei figli mi chiedevano se avessimo trovato qualcosa. La stessa domanda me la facevano tutti quelli che mi conoscevano. In quel momento senti che se fai bene una cosa, puoi salvare il mondo. Se non la fai bene, non lo salverai”. Bourla è stato uno degli uomini che ha messo in fila i pezzi che servivano a uscire dalla pandemia, in mezzo alla quale siamo ancora, ma con una strada per uscire. L’ha fatto con ambizione, quella che serve a dire voglio che siamo noi quelli che salveranno il mondo. Lo ha fatto anche con la bravura, quella che serve a riorganizzare un’azienda, darle una nuova rotta in poco tempo quando ci vorrebbero anni. Lo ha fatto anche credendo nella collaborazione, quella che serve a disegnare traiettorie importanti, dalla Germania a New York, passando per tutta l’Europa, attraversando il suo Mediterraneo, arrivando fino in Israele, linee che viste una per una sembrano solo righe, schizzi. Ma basta allontanarsi e quelle traiettorie hanno una forma, il disegno di un ponte che porta dall’altra parte della pandemia.

 

Bourla però ha una raccomandazione, l’ha scritta lui stesso a un anno esatto dall’inizio di tutto: quando lo avremo attraversato, questo ponte, ricordiamoci che in dodici mesi è stato “reso possibile l’impossibile”. Adesso tocca un compito ancora più impegnativo: correre alla velocità della luce, sempre, verso la primavera. Ma questa volta ogni tanto sarà bene voltarsi indietro per non sprecare i progressi impensabili ottenuti durante questo “incubo globale”.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)