La lotta sul Dalai Lama
Non solo dazi e guerre commerciali. America e Cina si scontrano anche sui piani per la reincarnazione di Tenzin Gyatso. Pechino vuole avere l’ultima parola sull’anima dei tibetani
Si parla di “reincarnazione” in una delle ultime leggi firmate dal presidente Donald Trump prima di lasciare la Casa Bianca. La legge bipartisan, il “Tibet Policy and Support Act of 2020”, vuole salvaguardare il diritto dei tibetani di scegliere il prossimo Dalai Lama senza le interferenze della Repubblica popolare cinese. Nella legge si dice che “le volontà dell’attuale quattordicesimo Dalai Lama, incluse le sue eventuali indicazioni scritte, dovranno avere un peso determinante nella selezione, educazione e venerazione del futuro Dalai Lama”, e si dice anche che “l’interferenza del governo cinese nel riconoscere il successore o la reincarnazione del quattordicesimo Dalai Lama rappresenterà una chiara violazione delle fondamentali libertà religiose dei buddhisti tibetani e del popolo tibetano”. Immediata è stata la reazione di Pechino. Wang Wenbin, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha chiesto agli Stati Uniti di non intromettersi negli affari interni della Cina.
I buddhisti tibetani, così come gli hindu, credono nella reincarnazione. Un presunto “continuum mentale” è ritenuto passare dalla persona deceduta alla sua nuova reincarnazione. Nella gente comune, queste reincarnazioni avvengono involontariamente. Sono la conseguenza del “karma” accumulato in vita. Per i lama tibetani, e cioè per i monaci che hanno raggiunto un elevato grado di realizzazione spirituale, la rinascita è invece diversa. Questi lama possono decidere quando e dove reincarnarsi. Sono coloro che, in tibetano, vengono chiamati “tulku” e, in cinese, “huofo”, i Buddha viventi.
Fra pochi mesi, il 6 luglio prossimo, Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, compirà 86 anni. La sua salute è buona e, con molto ottimismo, continua a ripetere che vivrà fino a 113 anni. Tuttavia, il problema della sua successione è da tempo all’ordine del giorno sia a Dharamsala, la cittadina dell’India dove il Dalai Lama vive in esilio, sia soprattutto a Pechino e a Washington. I cinesi sanno quanto sia ancora importante per il popolo tibetano la figura del Dalai Lama e, con ogni mezzo, cercano di controllarne la prossima reincarnazione.
Nel 2007 l’Amministrazione statale per gli affari religiosi del governo cinese ha emesso l’“Ordine numero 5” con cui regola “la gestione delle reincarnazioni dei Buddha viventi”. Nella legge si afferma che “la reincarnazione non deve essere soggetta a interferenze o imposizioni da parte di nessuna organizzazione o individuo esterni al paese”. (Qui il riferimento all’attuale Dalai Lama è evidente). Si dice anche che “il riconoscimento del Buddha vivente dovrà essere approvato dal Consiglio di stato”. In seguito a questo “Ordine”, il governo cinese ha pubblicato un “database dei Buddha viventi” che identifica le “vere” reincarnazioni approvate da Pechino.
Nel testo del “Tibet Policy and Support Act” si cita il fatto che, nel 1995, “il governo della Repubblica popolare cinese ha arbitrariamente detenuto Gedhun Choekyi Nyima, un bambino di 6 anni che era stato identificato (dal Dalai Lama) come l’undicesimo Panchen Lama, e ha preteso di insediare al suo posto un proprio candidato”. Il Panchen Lama è, dopo il Dalai Lama, la seconda autorità spirituale del Tibet. Questo episodio fece capire definitivamente all’attuale Dalai Lama che, dopo la sua morte, i cinesi avrebbero scelto un loro Dalai Lama.
Iniziava così, tra Dharamsala e Pechino, una snervante partita che dura tuttora. L’8 agosto 2011 il Dalai Lama trasferiva solennemente tutto il potere politico nelle mani del democraticamente eletto “sikyong” (presidente) Lobsang Sangay, il capo della Central Tibetan Administration (di fatto, del governo tibetano in esilio). Una prova di democrazia, dissero in molti. Ma c’era dell’altro. Togliendo il potere politico dalle mani dell’istituzione del Dalai Lama, Tenzin Gyatso si è assicurato che un eventuale futuro Dalai Lama “cinese” non possa firmare un accordo con la Repubblica popolare cinese col quale si riconosca il Tibet come parte integrante della Cina. Il Dalai Lama non si è solo voluto sbarazzare del potere politico. A volte prova insofferenza anche nei confronti della stessa istituzione delle reincarnazioni. Nell’ottobre 2019, parlando a un gruppo di studenti bhutanesi, ha definito il sistema dei tulku un “retaggio feudale” e ha ricordato come “il titolo di ‘reincarnato’ non è mai esistito nell’India del Buddha Shakyamuni, il Buddha originario”. “La casta dei tulku – ha aggiunto – esiste solo nel buddhismo tibetano”. Alcuni anni prima, in un’intervista rilasciata al New York Times, il Dalai Lama aveva detto che “tutte le istituzioni tibetane, compresa quella del Dalai Lama, si sono sviluppate in circostanze feudali, caratterizzate da sistemi gerarchici che discriminavano tra uomini e donne”.
In un lungo documento ufficiale datato settembre 2011 il Dalai Lama ha scritto che, quando avrà “circa 90 anni”, deciderà se la tradizione dei Dalai Lama dovrà continuare o meno. “Sia ben chiaro – ha scritto a conclusione del documento – che nessuna reincarnazione sarà accettata se il candidato sarà scelto per fini politici da qualcuno ivi compresi i funzionari del governo della Repubblica popolare cinese”. Il Dalai Lama preciserà in seguito tutte le opzioni che ha a disposizione. La prima, come vuole la tradizione, è quella di reincarnarsi dopo la morte in un bambino. Oppure, mentre è ancora in vita, trasferire i suoi poteri spirituali per “emanazione” (in tibetano “ma dhey”) in un’altra persona: un lama, un saggio, un giovane o una donna. In quest’ultimo caso, “con un corpo attraente”, ha aggiunto scherzando il Dalai Lama. E la battuta a qualcuno non è piaciuta. Un’altra possibilità è quella di convocare un concilio di tutti i più importanti lama e far scegliere a loro il suo successore, così come si fa in Vaticano con l’elezione del nuovo papa. Resta in piedi anche l’ipotesi più drastica: far cessare per sempre l’istituzione del Dalai Lama “se questa sarà la volontà del popolo tibetano”.
Per la nomina del nuovo Dalai Lama, la Cina appare avvantaggiata. Ha a disposizione i bambini tibetani tra cui individuare il nuovo reincarnato. Controlla il sacro lago Lhamo Latso dove si ottengono le “visioni” che indicano il luogo dove cercare la nuova reincarnazione. Possiede l’“urna d’oro” per l’estrazione a sorte del candidato finale. Il “suo” Panchen Lama potrà dare l’approvazione definitiva al candidato prescelto.
Cosa deciderà, in risposta a tutto questo, l’attuale Dalai Lama? Senza aspettare i suoi 90 anni, una previsione è forse possibile farla. Nessun tibetano, dentro e fuori il Tibet, chiederà l’abolizione dell’istituzione del Dalai Lama. Il trasferimento dei poteri del Dalai Lama per “emanazione” in un’altra persona non è mai avvenuto in passato e difficilmente sarebbe capito. L’elezione di un candidato in una sorta di concilio vaticano è molto difficile perché non ci sono, tra i lama tibetani della diaspora, delle figure con un’autorità e un carisma tali da poter sostituire l’attuale Dalai Lama. Resta la reincarnazione tradizionale in un bambino. Se questa sarà la scelta finale del Dalai Lama, è possibile fare un’ulteriore previsione. All’interno dei confini dell’India c’è una larga porzione di territorio tibetano. E’ una vasta area del Tibet meridionale che i colonialisti inglesi sottrassero a quello che era allora uno stato indipendente. Questo territorio corrisponde oggi in una larga parte allo stato indiano dell’Arunachal Pradesh, una zona che la Cina rivendica a sé. Si trova qui l’importante monastero tibetano di Tawang e il monastero di Ugyeling dove è nato, nel XVII secolo, Tsangyang Gyatso, il sesto Dalai Lama. Impossessandosi di questo territorio, i colonialisti inglesi si assicurarono una zona cuscinetto tra il Tibet e le loro piantagioni di tè in Assam, “nell’eventualità – dissero – che un giorno il Tibet finisca sotto il controllo cinese”.
Nel mese di aprile 2017, il Dalai Lama si è recato in visita in Arunachal Pradesh. La Cina, come al solito, ha protestato. Per il Dalai Lama si è trattato di una visita fortemente emotiva. Tawang era stata la sua prima sosta dopo che, malato, il 31 marzo 1959 aveva messo piede in territorio indiano al termine della sua fuga dal Tibet. “Questa visita – disse – mi provoca una forte emozione. Rivedo il luogo dove, per la prima volta, mi sono sentito libero”. Nel corso della visita in Arunachal Pradesh il Dalai Lama ha abbracciato un vecchio soldato indiano, Naren Chandra Das, che 58 anni prima lo aveva scortato, con altri soldati indiani, dal confine indo-tibetano di Chu Dhangmo fino a Tawang. Al termine della visita di nove giorni il Dalai Lama, commosso, ha detto alla folla di tibetani che da ogni anglo dell’Arunachal Pradesh erano accorsi a salutarlo: “Ritornerò”. Forse era un indizio.
Se il Dalai Lama deciderà di reincarnarsi in un bambino della zona di Tawang, vincerebbe la sua lunga partita con la Cina. Il nuovo Dalai Lama, il quindicesimo, sarebbe così un bambino tibetano nato in un Tibet non occupato dai cinesi. Ma la sua vittoria sarebbe solo simbolica. La morte dell’attuale Dalai Lama inevitabilmente destabilizzerà il Tibet e avrà un impatto drammatico sulla sua popolazione. Quando nei tibetani svanirà per sempre l’illusione di un ritorno del Dalai Lama nella sua terra, una forte ondata emotiva si abbatterà sull’intero Tibet. Ci saranno decine e decine di suicidi. E’ già successo. Dal 2009 a oggi, 152 tibetani si sono immolati con il fuoco in Tibet. Erano uomini e donne, religiosi e laici, adulti e ragazzi che, prima di essere avvolti dalle fiamme, hanno gridato di volere il ritorno del Dalai Lama in Tibet. Senza più il freno della presenza del Dalai Lama e senza i suoi suoi appelli alla nonviolenza, altri tibetani sfogheranno la loro frustrazione ricorrendo ad atti di violenza. In questo caso, la repressione cinese sarà durissima.
L’insurrezione tibetana del 2008, l’anno delle Olimpiadi di Pechino, non sarà ripetibile. Da allora, la Cina, grazie anche alle tensioni di confine con l’India, ha trasformato il Tibet in una “fortezza inespugnabile”, sono le parole di Xi Jinping. Nella Regione autonoma del Tibet vivono oggi 3 milioni e 300 mila tibetani disseminati in un’area geografica di un milione e 200 mila chilometri quadrati. Altri tre milioni di tibetani vivono nelle province cinesi del Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan. A controllarli, ci sono quarantamila uomini dell’esercito popolare di liberazione. Una base per missili terra-aria è stata costruita di recente nei pressi del lago Manasarovar. A Lhasa, un nuovo eliporto ospita elicotteri da combattimento Z-20. Bunker carichi di munizioni sono disseminati dappertutto. Superstrade e nuove linee ferroviarie sono in costruzione in tutta la regione. Promuoveranno lo sviluppo ma, soprattutto, permetteranno di spostare rapidamente personale ed equipaggiamento militare. Se i tibetani faranno ricorso alla violenza, saranno schiacciati. Quando Tenzin Gyatso morirà o, per dirla con un’espressione buddhista più appropriata, quando l’attuale Dalai Lama lascerà il suo corpo, un lungo e drammatico capitolo della storia del Tibet contemporaneo si chiuderà per sempre.