le elezioni in israele

Netanyahu aspetta Naftali Bennett

La differenza di voti tra la coalizione del premier e quella dell'opposizione è esigua. Il leader di Yamina ha davanti a sé una scelta importante anche per il suo futuro politico

Micol Flammini

Ogni elezione israeliana ha il suo ago della bilancia, il suo kingmaker. Questa volta il ruolo spetta al leader di Yamina che dovrà decidere a quale dei due blocchi, tra i pro Bibi e gli anti Bibi, dare il suo sostegno. I rapporti con il premier, le ambizioni e le parole in campagna elettorale

Con quasi il 90 per cento dei voti scrutinati, la coalizione di Benjamin Netanyahu potrebbe arrivare ai 61 seggi necessari per avere la maggioranza, ma soltanto se, in questi calcoli, si include il partito di Naftali Bennett, Yamina. Nei voti che si susseguono nella politica israeliana – quello di ieri è stato il quarto in due anni e c’è chi già invoca il quinto vedendo la frammentazione della nuova Knesset, frammentata quanto la precedente – c’è sempre l’ago della bilancia, il kingmaker, l’uomo con i seggi necessari per cambiare le cose. Il ruolo è stato interpretato per anni da Avigdor Lieberman, leader di Israel Beitenu, ex ministro dei governi Netanyahu e anche ex membro del Likud. Dopo aver fatto cadere un governo e dopo averne tenuti in ostaggio altri, il ruolo di Lieberman è stato ridimensionato, o meglio: è apparso per quello che è sempre stato. Dopo questo ciclo elettorale a prenderne il ruolo è arrivato Naftali Bennett, leader del partito di destra Yamina, che esce da questo voto con l’assegnazione di 7 seggi. 

 

 

Bennett è un altro ex, come Lieberman, come Gideon Sa’ar, come Yair Lapid. Hanno tutti fatto parte dei governi di Netanyahu, alcuni di loro (Lieberman e Sa’ar) anche del suo partito, ma nella storia di Bennett c’è anche un elemento personale e familiare: nel 2006 era il capo di gabinetto del premier, ma ha lasciato dopo due anni a causa dei suoi litigi con Sara, la moglie di Netanyahu. Bennett ha detto di essere stato umiliato e allontanato e da quel momento è iniziata la sua ricerca di una nuova casa politica. Prima nel partito Bayit Yehudi, poi, nel 2019, ha fondato il suo Yamina. Ma ex lo è sempre rimasto, anche se fuori dal Likud è stato ministro della Difesa, dell'Istruzione, dell'Economia, degli Affari della diaspora e dei Servizi religiosi, prima di finire nell’ultimo governo, inaspettatamente, all’opposizione. La sorpresa fu grande per lui: fu Bibi a dimostrare di poter fare a meno del suo ex capo di gabinetto formando un governo di unità nazionale con Kahol Lavan di Benny Gantz. 

 

I kingmaker, gli aghi della bilancia, sono spesso piccini, ma è a loro che rimane appesa la formazione di un governo. A questo ruolo Bennett ha giocato sin dall’inizio e adesso potrà decidere se dare al paese un governo “totalmente di destra”, come ha detto Netanyahu, oppure un “governo sano”, come Yair Lapid ha definito un eventuale esecutivo guidato da lui: Yesh Atid è il secondo partito con 17 seggi.

 

Di critiche Bennett ne ha riservate sia a Netanyahu sia a Lapid, ma è al Likud che ideologicamente si avvicina di più e del premier ha anche la capacità di cambiare campo, di corteggiare elettorati diversi. E’ in grado di calpestare il confine tra destra religiosa e centro, scrive Haaretz. Ma in questa campagna elettorale è stato molto abile a tirarsi fuori dai due fronti: quello pro Bibi e quello anti Bibi. “Il paese è diviso in due culti”, ha detto, “ho deciso di non appartenere a nessuno dei due. Dobbiamo sostituire Netanyahu non perché lo vuole la setta degli anti Bibi, ma perché ha fallito profondamente. E’ tempo di dirgli: ciao, grazie, ma ora è il momento di Bennett”. 

 

 

Il numero degli ex che ha cercato di superare il primo ministro, di prenderne il posto, di accerchiarlo, di sollevarlo, cresce a ogni ciclo elettorale. Mirano tutti ad assumere la sua leadership, anche quando, come ha detto la sondaggista Dahlia Scheindlin al Foglio, è chiaro che si tratti di un atto di hybris. Bennett è ambizioso, come lo è Lieberman, ma il suo Yamina che fino a qualche elezione fa non entrava neppure in Parlamento, è ancora troppo piccolo. “So di aver bisogno di ancora qualche mandato e ci sarò”, ha detto Bennett commentato gli ultimi sondaggi prima del voto a chi gli chiedeva se aspirasse a diventare premier: “Posso farcela”. 

 

 

Bennett è nato ad Haifa da genitori americani di San Francisco, il suo legame con l’America è un altro tratto che lo unisce a Netanyahu. Ha vissuto a New York prima di stabilirsi in Israele e fondare una start up di sicurezza informatica. L’ha venduta a 145 milioni di dollari, poi si è gettato in politica, accanto a Bibi. 

 

E' attorno al premier che gira la sua carriera, è il premier il suo termine di paragone: a un elettorato conservatore si presenta come il rappresentante di una destra pura – più pura di Bibi –  e all’elettorato più progressista come il rappresentante di “una destra sana” – più sana di Bibi –  con l’ambizione di sostituire un giorno il premier che tutti inseguono. 

 

Ora si trova tra le mani un capitale grande e la possibilità di lasciare in apprensione per un po’ il Likud, Yesh Atid, la Knesset, Israele. E’ il suo momento e Bennett, che in tanti dipingono come assetato di rivalsa nei confronti della famiglia Netanyahu è un politico più strategico che emotivo: la coalizione anti Bibi si regge soltanto sulla volontà di contrastare il premier, non c’è un programma elettorale condiviso, ma sfumature politiche diversissime, dalla destra di Sa’ar al centro sinistra di Lapid fino alla sinistra di Meretz e Labour. Il fronte pro Bibi ha un programma che Bennett condivide molto di più, forse anche più di Netanyahu, che ieri ha detto di aver parlato con i leader di vari partiti religiosi (Shas, United Torah Judaism e Religious Sionism) e anche con il fondatore di Yamina. Che ha soltanto risposto: “Farò ciò che è nell’interesse di Israele”. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)