I due assi dello Stato islamico
In Iraq i fanatici tengono in piedi il gruppo terrorista grazie all’andirivieni clandestino verso Siria e Turchia. Siamo andati a vedere le loro rotte e il loro terreno battuto dai bombardamenti internazionali
Tutti gli analisti e i giornalisti che seguono le vicende dello Stato islamico aspettano da due anni di scrivere un’analisi impossibile sul ritorno del gruppo terrorista al livello di potenza di prima. E’ un articolo impossibile perché non ci sono più le condizioni. Se lo Stato islamico provasse a fare quello che faceva nel 2013, con quei lunghi convogli che attraversavano la Siria e il nord dell’Iraq bandiere al vento, finirebbe sotto le bombe nel giro di un’ora. Se tentasse di aprire campi di addestramento fissi, come faceva allora, di nuovo ci sarebbe l’intervento delle forze internazionali. E se migliaia di volontari provassero a trasferirsi in massa da altri continenti verso un ipotetico territorio controllato dallo Stato islamico questa volta per loro sarebbe molto più arduo e non basterebbe comprare un biglietto aereo di sola andata, ci sono controlli e intercettazioni e arresti. Il mondo ha imparato che sono necessari mesi di combattimenti e di raid aerei per riprendere una città che è finita sotto il controllo dello Stato islamico – magari nel giro di due giorni. Prevenire è meglio che trovarsi con una metropoli araba ridotta a una paesaggio di macerie e migliaia di morti. Inoltre non ci sono nemmeno più le condizioni psicologiche per un ritorno come prima. Lo Stato islamico prometteva la vittoria certa contro i nemici di Dio e però quella non si è materializzata e adesso c’è aria di delusione ideologica, nel mondo accelerato anche il salafismo armato si logora in fretta come un nuovo stile musicale o una nuova dieta e non attira più follower.
Da quando nel marzo di due anni fa gli uomini dello Stato islamico hanno capitolato a Baghouz, in Siria, e si sono consegnati ai curdi con le loro donne e i loro bambini, il loro controllo ufficiale sul territorio è finito. La guerra a bassa intensità però è andata avanti. I dati dicono che in questi due anni lo Stato islamico ha rivendicato più di cinquemila attacchi in tutto il mondo e il numero più alto di operazioni è in Iraq. Non sono azioni che riempiono i giornali come le stragi che ricordiamo nelle città europee, da Nizza a Manchester, e se si vanno a scorrere gli annunci per la maggior parte sono cose come: “Oggi un cecchino del califfato ha ucciso un apostata nella zona di”, eccetera.
Per fare la radiografia allo Stato islamico in Iraq saliamo con i soldati curdi sul monte Qarachogh, a sud di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Più che un monte, il Qarachogh è un lungo crinale che emerge dalla piattezza infinita dell’Iraq come le costole di un dinosauro semisepolto, e si vede da lontano. E’ poroso e frastagliato, sulla cima ci sono gli avamposti dei curdi che come vuole l’ovvia tattica militare controllano i punti con la visuale migliore, ma i fianchi sono pieni di buchi che i fanatici usano per nascondersi. Quando i soldati escono di pattuglia trovano segni di presenza recente, cibo, vestiti, a volte pannelli solari per l’elettricità.
Martedì gli aerei hanno bombardato diciotto volte la costa stretta del Qarachogh e secondo il portavoce dell’esercito iracheno “hanno distrutto trentanove campi” dello Stato islamico – dove però non si capisce quanto grandi fossero questi campi. Erano un fuoco di bivacco con un pannello solare per ricaricare il telefonino e due fucili, in fondo a una grotta? La settimana scorsa sono venute fuori le immagini di un missile Storm Shadow sparato dagli aerei inglesi della Raf contro i fanatici che infestano il Qarachogh. E’ un’arma costosa che ha una testata che penetra nel terreno e poi esplode, è progettata per eludere i radar – che i terroristi non hanno – e per distruggere bersagli che si nascondono dietro protezioni robuste, come dentro a un bunker. I comunicati dell’esercito iracheno parlano sempre di “resti di Daesh”, abbiamo colpito i resti di Daseh, abbiamo trovato i covi dei resti di Daesh, ma a partire dal 9 marzo gli aerei internazionali hanno fatto trecentododici bombardamenti in questa zona. Viene da pensare che a tutto questo fumo debba per necessità corrispondere molta presenza del nemico sul terreno.
I soldati curdi appartengono a un’unità specializzata di stanza nella base “Tigre nera” a un’ora di strada dal Qarachogh, sono efficienti e in forma, sul braccio hanno il motto “Kurdistan o morte”, sono stati addestrati da istruttori militari di altri paesi – Italia inclusa – e nel cortile conservano fra gli altri mezzi blindati anche due ex autobomba dello Stato islamico. Sono mezzi civili che i meccanici del gruppo terrorista hanno trasformato in blindati con lastre di acciaio e grate, dopo la guerra sono stati svuotati dell’esplosivo e sarebbe stato un peccato distruggerli: i militari curdi vivono in economia di scarsità e sono circondati da forze potenzialmente ostili, non c’era ragione di sprecarli.
In cima al Qarachogh indicano oltre il parapetto di sacchetti di sabbia, dicono che le entrate dei tunnel sono a cinquanta metri di distanza e che a volte è possibile vedere i movimenti. Indicano la pianura sotto il crinale, che si perde nella foschia verso la città di Hawija, la zona di Qaraj. In quella piana ci sono più di duecento villaggi e c’è lo Stato islamico. Non fa le esecuzioni in piazza e non gira con le bandiere, ma punisce e colpisce tutti i nemici locali che provano a opporre resistenza. Non gira di giorno, ma di notte è come se la zona fosse di nuovo sua. L’esercito iracheno ha bloccato le strade di accesso e non fa entrare nessuno da fuori, di sicuro non i giornalisti stranieri, e i curdi lì sotto non hanno giurisdizione. E una no-go area che resiste felicemente alle incursioni dei soldati: la gente avvisa i fanatici dei rastrellamenti, loro spariscono senza cominciare scontri diretti – adesso non avrebbe senso – e poi tornano appena la situazione è di nuovo sicura. E’ interessante notare che i bombardamenti della Coalizione internazionale colpiscono le grotte sui monti, ma non questi villaggi, perché ciascuno è abitato da centinaia di civili e la cosa aprirebbe una crisi.
Da Qaraj questa riserva naturale dello Stato islamico si estende verso un’altra catena di alture, quella degli Hamreen, che però è molto più vasta ed è una sequenza infinita di anfratti e di rilievi tra i quali è più facile nascondersi. E’ sugli Hamreen che furono feriti gli incursori italiani saltati su una mina nel novembre 2019 ed è sempre lì che il capo dello Stato islamico in Iraq, Abu Yassir al Issawi, è stato ucciso a febbraio – era un uomo fidato del leader Abu Bakr al Baghdadi (morto nel 2019). Nei video recenti del gruppo c’è quel paesaggio inconfondibile che ricorda gli Appennini. E’ come se il Qarachogh fosse un’isola e gli Hamreen la terra ferma con la stessa conformazione e lo Stato islamico facesse la spola fra questi due luoghi.
Per fare un altro pezzo di radiografia allo Stato islamico in Iraq vale la pena spingersi più a sud, nella parte settentrionale della regione di Salaheddin, assieme alle milizie più odiate dallo Stato islamico, quelle di Hashd al Asha’iri. Sono uomini armati sunniti che hanno deciso di combattere contro i fanatici, che sono sunniti anch’essi, e quindi secondo la dottrina dei terroristi sono anche più colpevoli delle milizie sciite, che sono nemiche ma in un certo senso non sono traditrici. E’ una milizia tribale, che affianca e sostituisce le forze di sicurezza per tenere una striscia che si allunga per cento chilometri verso nord libera dalla presenza dello Stato islamico. Prendono soldi dal governo di Baghdad. E’ una delle realtà dell’Iraq, dove la guerra è affidata a strati diversi di gruppi armati che non sono per forza regolari ma che lavorano nella stessa direzione. “Lo Stato islamico non c’è, non abbiamo più problemi, è finito”, ci dice il capo del clan armato nella sua base, una costruzione a un solo piano con interni tutti di legno, lo sceicco Nahsan Sakhar Salman, che afferma di avere a disposizione quattromila uomini. Le sue parole cozzano con quello che sta succedendo più a nord. Se è finito, perché gli aerei della Coalizione continuano a bombardare e spesso lo fanno su indicazione degli iracheni a terra?
Tre dei suoi veicoli ci accompagnano verso l’isola di Qanus (che nell’arabo iracheno suona Ganus), sono jeep bianche con sopra una mitragliatrice da 12,7 mm, imboccano una strada sterrata che costeggia il fiume Tigri, toccano un avamposto, arrivano a un altro avamposto che affaccia davanti all’isola. Questi avamposti della milizia tribale sono soltanto ville a due piani occupati dai combattenti di Hasd al Asha’iri, sono ridipinti di fresco in bianco e strisce turchine. Sembrano castelli di Disney World, forse è un pattern antimimetico per dire agli aerei della Coalizione che sono luoghi occupati da amici. Dal tetto un comandante spiega che l’isola in mezzo al fiume Tigri serviva da guado agli uomini dello Stato islamico. Venivano da laggiù – indica verso ovest, il confine con la Siria invisibile perché troppo lontano – poi si nascondevano in mezzo al fitto della vegetazione sull’isola e poi andavano verso l’altra riva – indica il resto dell’Iraq.
L’ufficiale dice Siria in modo generico, ma in Siria c’è un deserto centrale dove lo Stato islamico è attivissimo. E’ la regione della Badia, pochissimi abitanti, pianure e alture aride dove è facile rifugiarsi. L’anno scorso in quella regione i guerriglieri hanno ammazzato quattrocento soldati del regime del presidente Bashar el Assad e anche un generale russo. Se si guarda la mappa, è come avere delle isole di territorio che si guardano e comunicano fra loro da entrambe le parti del confine. La Badia arida in Siria è l’isola più grande che in questi due anni è diventata la più infestata. Lì lo Stato islamico contende con successo il controllo all’esercito siriano. Dalla Badia i fanatici possono varcare il confine con l’Iraq, attraversare il Tigri e raggiungere l’altra isola di territorio, quella degli Hamreen e del Qarachogh in cima al quale i curdi guardano senza poter fare molto il deteriorarsi lento della situazione. E’ meno sicura per loro perché iracheni, curdi e Coalizione fanno un lavoro più intenso e letale di controllo, ma sono vasi comunicanti. Per fermare questo passaggio a settembre i francesi hanno raso al suolo l’isola, in modo che diventasse un enorme spiazzo brullo in mezzo al fiume, ma i soldati dicono che ancora, per quanto molto più inospitale, quel punto è usato per il guado.
L’impressione è che gli spazi siano troppo vasti per essere controllati sempre e davvero. Lo Stato islamico cresce e si muove negli interstizi trascurati dalle forze di sicurezza. Questi cosiddetti rimasugli di Daesh seguono una curva epidemiologica di un virus contagioso: lasciati a loro stessi, senza contenimento, fanno alzare la curva del rischio e si allargano. Per tenerli sotto controllo c’è bisogno di sorveglianza e di una campagna aerea permanente. Ogni volta che finisce un lockdown ti devi chiedere: questa volta quanto abbiamo ecceduto in ottimismo? Lasciamo il fiume molto prima del buio, torniamo verso la base su strade che attraversano villaggi semideserti, ci sono pochissime figure umane e molto sospettose. C’è una teoria molto in voga sul fatto che fanatismo e povertà non coincidano, si fa l’esempio di volontari partiti dall’Europa per raggiungere lo Stato islamico che avevano tutto dalla vita, studiavano, avevano buoni posti di lavoro e case da privilegiati. Eppure è difficile non pensare, mentre i veicoli ballonzolano sulle piste quasi invisibili tra un villaggio e l’altro, che questi sono i luoghi in mezzo al nulla che fanno da culla del fanatismo. Da qui arriva il grosso della manovalanza. Il governo è lontano come un miraggio. Il viaggio del Papa? E’ come se fosse atterrato in un altro paese.
Ora, per continuare c’è prima da ricordare che lo Stato islamico in Iraq oggi si divide idealmente in due categorie. Da una parte ci sono i guerriglieri barbuti, che fanno una vita da banditi, un po’ braccano e un po’ sono braccati, frugali come bestie selvatiche, vivono di rapimenti e di appoggio locale e fanno poche operazioni. Uno di loro catturato questa settimana non scendeva dalle alture da tre anni, quindi si era dato alla macchia dopo la sconfitta a Mosul. Dall’altra ci sono gli uomini dello Stato islamico ben rasati, che sfuggono ai controlli e ai sospetti e fanno una doppia vita, fatta di molti commerci e attività che servono anche a finanziare il gruppo. Si stima che lo Stato islamico abbia ancora a sua disposizione centinaia di milioni di dollari che in questa regione possono fare da motore per molte attività e per molti anni. Non è una forza enorme, ma è una forza con la quale tocca ancora fare i conti.
I barbuti quando possono e quando serve si muovono su questo asse est-ovest fra Siria e Iraq. I non barbuti si muovono invece (e lo fanno molto più comodamente) lungo un asse nord-sud, che dal centro dell’Iraq va verso la Turchia. In alcuni casi hanno nuove identità e passaporti falsi, in altri non hanno bisogno di queste cautele perché non sono mai finiti negli schedari dell’intelligence e delle forze di sicurezza. La reporter free-lance Shelly Kittleson scrive che nella zona di Tarmiya, a nord della capitale Baghdad, una regione dove i salafiti sono una forza importante e dove lo Stato islamico ha trovato storicamente molte reclute, ci sono attività legali come per esempio allevamenti di pesci che servono per finanziare il gruppo, e questo è soltanto un esempio. Alcuni arresti importanti di leader dello Stato islamico o dei loro familiari sono avvenuti dopo o durante questi trasferimenti fra Iraq e Turchia. Il sito al Monitor all’inizio di marzo raccontava che la polizia turca ha arrestato un leader dello Stato islamico di Mosul che a febbraio ha messo in vendita sul deep web una bambina yazida di sette anni, sequestrata durante i rapimenti di massa dell’estate 2014, che lui ancora teneva come bottino di guerra. La cattura è avvenuta in un appartamento di Ankara e la vicenda non è un caso isolato. Ci sono state altre compravendite e quindi si suppone che ce ne siano altre mai scoperte. Nel luglio 2020 una donna yazida di 24 anni tenuta prigioniera nel quartiere Sincan di Ankara è stata liberata dalla sua famiglia, che l’ha ricomprata indietro sempre online. Era tenuta segregata da un uomo dello Stato islamico di Mosul che l’aveva acquistata sul mercato delle schiave online nel 2018, quindi quando ormai il gruppo in Iraq era già stato distrutto e non controllava più alcuna città. L’uomo si muoveva di frequente tra l’Iraq e la casa di Ankara dove teneva due mogli, quattro figli e la donna yazida. Un’altra donna yazida è stata trovata sempre ad Ankara nell’ottobre 2019, era stata rapita a quattordici anni nel 2014 ed era nelle mani di un comandante dello Stato islamico che aveva affittato un appartamento a Kecioren, che come Sincan è un quartiere della capitale turca dove molti clandestini iracheni dello Stato islamico si sono raggruppati. Anche quel comandante tornava spesso in Iraq. Il fratello della ragazza l’ha ritrovata, ha fatto una fotografia, ha chiamato la polizia e l’ha fatta liberare assieme al bambino nato dopo gli stupri. Il rapitore non è ricercato però per questo reato perché la rapita non lo vuole accusare. Come i due quartieri di Ankara, anche la vicina città di Kirsehir è diventata un’altra isola territoriale dello Stato islamico, con molti arresti negli ultimi tre anni, inclusi sette parenti di Abu Bakr al Baghdadi, che però sono soltanto una parte della comunità di fanatici che si muove fra i due paesi.
Così sulle alture irachene c’è da constatare che i bombardamenti internazionali contro lo Stato islamico – l’ala dei barbuti che si parla con gli altri barbuti in Siria – continuano a centinaia nel giro di tre sole settimane e che il gruppo dei ben rasati porta avanti i suoi affari con una presenza ben piazzata in Turchia e continua persino il mercato online delle schiave yazide. Le due colonne si parlano, eludono per quanto gli riesce la caccia, e sopravvivono.