AP Photo/Steven Senne

I tesori del Washington Post

Simona Siri

Il lascito del direttore Marty Baron è fatto di numeri spaziali e di un approccio da “old guy” che ha tenuto il giornale al riparo dalle tempeste della cancel culture. Il compito e il profilo di chi lo sostituirà

Interno giorno: la redazione del quotidiano Boston Globe. Si sta festeggiando un cronista che va in pensione. Robby Robertson – qui interpretato da Michael Keaton – indica con la mano l’ufficio all’angolo, quello più prestigioso, ancora vuoto. E poi, diretto al collega che sta per andarsene: “Te ne vai prima che arrivi il nuovo direttore. Che cosa sai di lui che noi non sappiamo?”. Nel film del 2016 “Spotlight” Martin Baron viene introdotto così. Come un’incognita che si sta abbattendo su una delle più antiche istituzioni di Boston, una città ipercattolica non esattamente cordiale con chi arriva da fuori e che, aggravante, “è single ed ebreo”, come viene specificato più avanti. Che cosa invece porterà la direzione di Baron lo conosciamo: sotto di lui il Boston Globe scoperchia lo scandalo più grande che abbia travolto la Chiesa cattolica, quella degli abusi sui minori e del sistema di spostare i preti colpevoli di parrocchia in parrocchia, di città in città, senza rimuoverli o punirli. In termini giornalistici è un Pulitzer Prize per il servizio pubblico. Per il direttore, la svolta di una carriera già ben avviata – New York Times e al Miami Herald prima – ma che con l’avvallo del cinema entra nel mito (nel film il suo ruolo lo interpreta Liev Schreiber che lo ritrae come un personaggio stoico, incorruttibile, pieno di princìpi ma privo di senso dell’umorismo e un po’ cupo, una rappresentazione che “molti colleghi professionisti riconoscono immediatamente ma che i miei amici più cari trovano non del tutto familiare”, scriverà Baron stesso.

 

La verità è che quei primi mesi al Boston Globe non furono un periodo facile per me. Senza dubbio il mio comportamento lo tradiva, al punto che un giornalista del Globe all’epoca descrisse anonimamente l'atmosfera della redazione come ‘una ricerca senza gioia dell’eccellenza’”). Al Washington Post Marty, come lo chiamano un po’ tutti, arriva nel dicembre del 2012 – pochi mesi prima che il giornale sia acquistato da Jeff Bezos – e ci rimane fino al 28 febbraio 2021, giorno in cui sono diventate effettive le sue dimissioni. Nel momento in cui lascia il posto da direttore e forse anche il giornalismo, ha il curriculum più decorato di qualsiasi giornalista americano degli ultimi 25 anni. Le redazioni guidate da lui hanno vinto 17 Pulitzer, di cui dieci solo al WaPo. Il suo status è monumentale e la sua eredità è diventata da un mese a questa parte argomento di discussione collettiva, insieme alla curiosità su come e dove si muoverà l’editore per trovare un sostituto in grado di mantenere il quotidiano della capitale lassù dove lui ce l’ha messo, a fare concorrenza al New York Times, cosa impensabile prima del suo arrivo.

 

Dal 2013 il Washington Post ha quasi raddoppiato le dimensioni della sua redazione: oggi si aggira su una cifra intorno ai mille – ma è ancora in espansione dal momento che sono previste 19 nuove assunzioni per coprire i due nuovi hub di notizie, uno a Londra e uno a Seul – e ha triplicato gli abbonamenti digitali, che oggi sono circa tre milioni. “Il suo effetto sul giornalismo americano è stato imponente. E direi per la maggior parte positivo”, dice al telefono Eric Boehlert autore e fondatore della newsletter PressRun. “Baron ha avuto una carriera straordinaria, ma si è anche trovato, bisogna ammetterlo, nel posto giusto al momento giusto. Ovvero alla guida del Washington Post quando l’uomo più ricco del pianeta lo ha comprato. Sono sicuro che il giorno in cui ha ricevuto la notizia non sapeva se sarebbe stata buona o pessima. Nessuno poteva saperlo. Molte persone ricche hanno acquistato in passato giornali e li hanno decimati. Invece, nel caso di Bezos, credo si possa dire senza più ombra di dubbio che è stata la cosa migliore capitata al Washington Post. Ha reso il suo lavoro molto più facile, gli ha permesso di assumere 30, 40 persone, di spendere soldi potenziando la sezione multimediale, le inchieste, i video. Baron da parte sua è stato in grado di utilizzare molto bene le risorse, ha non solo resuscitato il giornale ma lo ha fatto diventare uno dei più importanti del paese. Personalmente credo che non sia ancora a livello del New York Times che ha una sezione cultura e arte imbattibile, ma non c’è dubbio che la lettura del WaPo oggi è irrinunciabile”.

 

Le rivelazioni sulla sorveglianza da parte della National Security Agency, grazie alla fonte Edward Snowden (Pulitzer); un progetto rivoluzionario che raccontava ogni omicidio di un agente di polizia nel 2015 (Pulitzer); lo scoperchiamento della truffa della associazione di beneficenza gestita dai Trump (Pulitzer); lo scandalo Access Hollywood Tape (il famoso “grab them by the pussy”); lo scandalo sessuale del candidato repubblicano al Senato dell’Alabama Roy Moore (Pulitzer); il Russiagate ovvero l’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016 (Pulitzer). Le inchieste supervisionate da Baron negli otto anni da direttore si sono mosse in varie direzioni, anche se è indubbio che è la copertura della presidenza Trump che ha elevato il ruolo del giornale a difensore della democrazia (“democray dies in the dark” è la frase che si legge sulla testata, sotto il nome), con tutto quello che ne è conseguito, attacchi quotidiani da parte dell’ex presidente compresi (“Non siamo in guerra con l’Amministrazione Trump, siamo al lavoro”, dichiarò Baron subito dopo le elezioni).

 

Accanto alle indubbie lodi, è però su Trump che arrivano i primi biasimi, macchie di un’eredità che si sta cominciando a valutare. “La mia sola critica a Baron è quella di aver scelto all’inizio di non chiamare Trump bugiardo e di aver cambiato idea troppo tardi”, dice Boehlert. Il riferimento è a una delle ultime interviste rilasciate dal direttore in cui, alla domanda sui rimpianti, cita proprio questo, la scelta di non bollare le affermazioni di Trump come “menzogne” quanto piuttosto come “affermazioni ingannevoli” pur avendo dedicato risorse spettacolari all’attività di verifica dei fatti. “Avremmo dovuto essere molto più franchi sulle bugie di Trump. Avremmo dovuto chiamarle così fin dall’inizio. Stavamo operando in base al principio della buona fede, ma non c’è dubbio che lui ci abbia sfruttato”, ha detto Baron allo Spiegel. La seconda critica, forse ancora più importante soprattutto in vista della scelta del successore, riguarda il modo in cui ha gestito le tensioni all’interno della redazione sulle questioni razziali, di rappresentazione e dell’uso dei social media. L’episodio più clamoroso è quello del reporter di colore Wesley Lowery dopo che quest’ultimo aveva criticato, in una serie di tweet, il New York Times per aver ignorato il razzismo alla base del movimento dei Tea Party. Baron, secondo quanto riferito da diverse fonti al Daily Beast, lo aveva accusato di danneggiare la credibilità del giornale, minacciandolo di spostarlo sulla pagina delle opinioni (andatosene di sua volontà, Lowery ora lavora in televisione. Sulla vicenda ha twittato: “Che senso ha portare esperienze e voci diverse in una stanza solo per mettere loro la museruola?").

 

“Non c’è dubbio che gli aspetti negativi che la redazione ha riportato sul suo operato negli ultimi due anni sono legati al tema della diversity”, dice Hamilton Nolan, public editor del Washington Post per la Columbia Journalism Review. “La domanda è se si riuscirà a spezzare la sindrome dell’uomo bianco di mezza età. Baron è stato l’ultimo dei direttori classici, puro editore di un giornale di carta. E’ molto probabile che il successore venga dall’online. Penso che il Washington Post abbia fatto un lavoro migliore di tanti altri nello stare al passo con i tempi, ma penso che molte persone dello staff vogliano una guida più moderna su una serie di problematiche su cui Baron ha avuto una visione molto tradizionale. C’è poi un altro tema: chi lavora nei giornali oggi ha una voce più forte per far sentire le proprie ragioni. In parte è dovuto al fatto che i media sono molto più sindacalizzati di quanto non lo fossero in passato. In parte è che la società sta cambiando e nessuno ha più paura di parlare, anzi, i giornalisti sono disposti a usare la voce per criticare le proprie organizzazioni e questo può essere una cosa buona. Può aiutare tutte queste testate a rafforzarsi, ma per farlo devi avere un management disposto a lavorare con le persone e non a litigare con loro. Un direttore moderno dovrà essere in grado di lavorare con lo staff in una modalità meno dall’alto verso il basso. L’incidente con Wesley Lowery e la lotta su cosa a un giornalista è permesso dire su Twitter è stato emblematico. C’è anche uno scontro generazionale, qui, su quello che la gente pensa sia giornalismo e su cosa i giornalisti possono o non possono fare. Marty Baron era un tipo vecchia maniera”.

 

An old school guy”. Una definizione che non lo offende, anzi. Nella sua ultima intervista al New Yorker ha detto parlando del suo modello di leadership: “Ci sono molti manager che prediligono l’intenzione di piacere. Io preferisco essere rispettato, e queste sono due cose diverse. Non è necessario che tu piaccia tutto il tempo, ma penso che sia importante che le persone abbiano rispetto per il tuo giudizio, per la direzione che stai fornendo, per le tue idee e per come le tratti”. Quanto al futuro del Washington Post, un nome non è stato ancora fatto, ma gira con insistenza quello di Kevin Merida, ex caporedattore del WaPo che ora è il redattore capo del canale di sport Espn, di proprietà della Disney. “Gli ultimi dieci anni ci dicono che a essere in pericolo per l’effetto di internet sono le testate piccole”, chiosa Nolan. “Il Washington Post grazie al denaro di Bezos è probabilmente nella posizione migliore di chiunque altro per fare investimenti, guardare al futuro, fare ottimo giornalismo. L’unica cosa che non devono fare è assumere un idiota”.

 

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