L'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, bannato dai principali social network dopo l'assalto a Capital Hill (Ansa)

Dopo il ban di gennaio

Il referendum di Twitter su Trump: ce lo ripigliamo?

Cecilia Sala

La decisione di espellere The Donald continua a tenere banco e ora la piattaforma chiede a suoi utenti un "contributo per decidere come plasmare le politiche e applicare le nostre regole sulla partecipazione dei leader mondiali". Non se ne sentiva il bisogno

Deplatfoming Trump. La decisione di Twitter e Facebook di espellere l’ex inquilino della Casa Bianca dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio continua a produrre conseguenze. Il rapporto tra le piattaforme e Trump era teso da tempo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le dichiarazioni dell’allora presidente uscente sulla frode elettorale “che non permetteremo”, quelle che hanno incitato la folla alla protesta eversiva. Bannare Trump è stato semplice, gestire il dopo, orientare i prossimi passi nel futuro dell’autoregolazione con un precedente così ingombrante alle spalle sembra esserlo molto meno. Era stato lo stesso Jack Dorsey, l’ad di Twitter, a dirlo. La sua piattaforma in questi giorni ha indetto un “referendum” tra gli utenti di tutto il mondo: “Twitter vuole il tuo contributo per decidere come dovremmo plasmare le nostre politiche e applicare le nostre regole sulla partecipazione dei leader mondiali alla conversazione pubblica”.

 

Forse, adesso, Twitter chiede troppo. Chiede la nostra opinione e, in maniera un po’ goffa, una legittimazione quasi “democratica”, vagamente populista, a una strategia che è stata puramente aziendale e decisa in tutta fretta, data l’urgenza, dai vertici. Si tratta di un sondaggio scritto dall’ufficio legale di un’azienda privata, cosa farsene dei risultati saranno poi i dirigenti, che rispondono agli azionisti e al mercato prima che a noi, a deciderlo. Il referendum dimostra però un’ambizione e una postura che cozzano con la più ovvia strategia difensiva adottata all’epoca del ban, basata sul principio secondo cui Twitter è una società privata che gestisce un servizio, e uno spazio virtuale, privato. Ergo, come per qualsiasi altra proprietà privata, il padrone di casa è libero di accogliere gli ospiti che preferisce e di tenere fuori dalla porta chi crede. Questa sembra essere anche l’unica posizione e l’unica strategia proporzionata rispetto a ciò che Twitter può – in termini di legittimità e anche di capacità – realmente fare.

 

Come dimostra una recente audizione in Senato in cui Dorsey, incalzato dalle domande dei parlamentari che chiedevano perché Trump venisse oscurato per incitamento all’odio e i leader politici che si augurano che Israele venga rasa al suolo no, risponde che la policy di Twitter non è – come siamo abituati a pensare – quella di combattere la disinformazione o l’hate speech in generale, ma limitatamente alle affermazioni disoneste sulla campagna elettorale e alle falsità sul Covid. È stato obiettato per quale motivo allora la disinformazione di Trump sul Covid venisse oscurata mentre quella di Jair Bolsonaro no. Non si è capito, o meglio si è capito che le risorse che Twitter dedica alla moderazione sono limitate e che non ha princìpi sufficientemente chiari e coerenti su cui basarsi per decidere di sanzionare. Ma non ci sono solo le ammissioni di Twitter in audizione a suscitare dubbi: per misurare il tasso di confusione basta ripensare a quello che è successo in rete dopo il ban di Trump. Quando la piattaforma aveva bloccato, oscurato, rimosso altri politici meno famosi in giro per il mondo, e alcune pagine d’informazione e di televisioni di stato.

 

In alcuni casi per eccesso di prudenza, in altri del tutto per errore. L’incertezza in cui naviga Twitter la sta attraversando anche il colosso di Menlo Park. Zuckerberg non è per nulla convinto di voler tenere l’ex presidente fuori dal suo social per sempre. La soluzione per uscire dall’impasse l’ha proposta Nick Clegg, ex vicepremier inglese oggi vice di Zuckerberg e responsabile delle relazioni istituzionali. Si tratta di una Corte suprema interna: l’Oversight Board. Una commissione di esperti – magistrati, premi Nobel, accademici, attivisti e scrittori – che devono decidere se ridare la parola, e l’account, a Trump. Sono passati alcuni mesi e ancora non è chiaro se potranno votare solo i cittadini statunitensi o anche gli altri, e in generale come procedere. Infine bisognerà capire se le chiavi del suo profilo Trump le rivuole, visto che sta pensando di fondare un proprio social network.

 

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