Il processo al killer di George Floyd ci dirà se la condanna è un atto dovuto o un cambiamento vero
Cosa rappresenta veramente Black Lives Matter? Una giuria di otto bianchi e sei neri è pronta a decidere su Derek Chauvin: finora i presupposti hanno oscurato il problema culturale, in nome di uno brandello di pace sociale
E’ cominciato il processo a Minneapolis. Alla sbarra Derek Chauvin, il poliziotto accusato di avere deliberatamente ucciso George Floyd il 25 maggio dello scorso anno, immobilizzandolo a un incrocio stradale, ammanettandolo e soffocandolo con la pressione di un ginocchio sul collo per 9 minuti, sotto gli sguardi attoniti dei passanti e dei loro cellulari.
Il tema centrale dell’evento è: sarà la solita storia? Finirà come le altre volte? Il baratro razziale fungerà nuovamente da regolatore del giudizio? Siamo ancora al “Falò delle Vanità”? Ovvero: anni di caotico attivismo, proteste, implorazioni e saccheggi, hanno spostato, e di quanto, l’asse del problema razziale nella nazione? A otto anni dalla fondazione, a latere dell’omicidio di Trayvon Martin, cosa rappresenta veramente Black Lives Matter? Un nascente partito politico, un’intermittente congiunzione tra un movimento di pensiero elitario e un’aggregazione di frustrazioni popolari su base razziale? Uno sfogatoio o un laboratorio? Un coordinamento per cacciatori di risarcimenti o il prodotto della saldatura tra il politicamente corretto dei liberal e le rivendicazioni di una base nera nevrotizzata? E che effetti attendersi dal verdetto, viste le imputazioni per omicidio di secondo-terzo grado?
In questa pagina si parla di sublimazione dell’oblio per effetto di secoli di stress psichico, e del come la perdita di fiducia nell’instaurazione di un correttivo della legalizzazione della schiavitù in America – e della sottomissione dei neri ai bianchi come paradossale regola sociale – continui a dare frutti estremi: a cominciare, per esempio, dalla fuga dalla realtà, epilogo straniante allorché diviene una seducente tendenza artistica, estetica, addirittura filosofica. Ma è ovvio che queste siano soluzioni intellettuali, sebbene connesse con un diffuso disturbo della psiche nazionale. A Minneapolis invece, il gioco si fa estremamente reale. Come nelle grandi occasioni, è calato in città il reverendo Al Sharpton, invocando giustizia e assumendo il controllo della comunicazione della vicenda. L’intera rappresentazione promette di diventare la madre di tutti i processi sulla condotta della polizia – palesemente intesa come emanazione della coscienza bianca – verso i cittadini neri. Il prologo è stato il patteggiamento da 27 milioni di dollari che ha chiuso la causa civile tra la città di Minneapolis e la famiglia Floyd. Una mostruosa pioggia di denaro che rende ancor più acre la vicenda e i suoi riflessi, da un lato anticipando un verdetto di colpevolezza del poliziotto (licenziato insieme ai tre colleghi presenti sulla scena), dall’altro attribuendo un peso abnorme al pragmatismo del risarcimento solido, che oscura il bisogno di una definizione etica incontrovertibile su quanto è accaduto quel lunedì sera all’incrocio tra la 38ª strada e la Chicago Avenue.
Molti indizi, infatti, fanno pensare a un probabile verdetto di condanna che equivalga al sacrificio dell’ex agente Chauvin sull’altare di un brandello di pace sociale, con una giuria, composta da otto bianchi e sei neri, che agisce in un contesto fiaccato da dieci mesi di disordini. Le strategie difensive, che puntano sul consumo di stupefacenti da parte di Floyd, sulla sua reputazione non cristallina, sulla sua stazza fisica e sui suoi problemi cardiaci, peraltro difficilmente scardineranno l’impatto senza appello delle immagini dei video e la proiezione della storia su uno scenario nazionale disseminato di vicende-fotocopia. Ma altrettanto autorizzato è lo scetticismo sull’intero caso, se letto come indicatore di un cambiamento in atto. “Dicono che ci dobbiamo fidare del sistema”, dichiara Terrence Floyd, fratello dell’ucciso. “Ci dimostrino che questa fiducia è ben riposta”. Ovvero decidiamo se George Floyd è morto invano, o se i tempi sono maturi per una effettiva catarsi. Bisogna attendere, prima di tirare conclusioni. Perfino i movimenti di protesta si cristallizzano. Ma l’aria che tira è quella di un atto dovuto che non cambierà la sostanza. E la sostanza è: cosa serve perché questa crisi veda una luce? E’ la protesta la perenne soluzione, o l’avvento di effettive, nuove convinzioni sull’argomento è, prima di tutto, un problema culturale?