disinformare costa

La ritirata dei media del Cremlino

Il caso Sputnik nel Regno Unito e i tagli di Rt in Francia, forse Mosca sta spostando risorse o cambiando strategia

Micol Flammini

I russi della testata Sputnik lasciano Londra ed Edimburgo “per il clima politico ostile”. Davvero? O i problemi sono altri?

Roma. La testata russa Sputnik lascerà le sue sedi nelle città di Londra ed Edimburgo. Assieme a Rt è considerato uno degli organi di disinformazione con cui il Cremlino, che è anche il finanziatore, cerca di raggiungere un pubblico sempre più ampio in tutto il mondo, con l’intenzione di raccontare la versione russa dei fatti. Sputnik è arrivato nel Regno Unito nel 2016 e la ragione ufficiale della chiusura sarebbe dovuta, come riporta il Times, a “un ambiente politico sempre più ostile”. Dopo la vicenda di Salisbury, nel 2017, il rapporto tra la Russia e il Regno Unito è cambiato, la premier di allora, Theresa May, accusò direttamente il Cremlino del tentato avvelenamento dell’ex spia russa Sergei Skripal. Due agenti del Gru, l’intelligence militare russa, cercarono di avvelenare Skripal e sua figlia portando da Mosca un potente nervino, il Novichok. La missione fallì, ma la boccetta di profumo in cui era contenuto il veleno finì nelle mani di una donna che morì a qualche settimana di distanza. L’episodio ha complicato i rapporti tra i due paesi,  ma sono molti i sospetti sui rapporti tra il governo britannico e la Russia, a partire dalla testimonianza del finanziere americano Bill Browder che lo scorso anno denunciò le connessioni di Mosca con l'establishment britannico, dentro ai Tory e dentro al Labour. Molto chiacchierata è anche la nuova sala stampa che ha voluto Boris Johnson, costata 2,6 milioni di sterline e realizzata in parte da un’azienda russa. Londra non sembra quindi essere un posto “politicamente ostile” per i media russi e l’annuncio della chiusura delle sedi di Sputnik a Mosca ed Edimburgo è stato inaspettato. Soprattutto per i dipendenti: il personale – i posti di lavoro persi saranno una ventina – è stato avvisato soltanto questa settimana che il contratto per l’attiva nel Regno Unito non era stato rinnovato ed era quel contratto che permetteva di pagare i giornalisti. 

 

A ottobre dello scorso anno dentro alla sezione francese di Rt, l’altro braccio mediatico del Cremlino all’estero ha licenziato alcuni dei suoi giornalisti con un preavviso molto breve. Il 23 settembre, cinque della squadra hanno saputo che il loro contratto, che sarebbe scaduto il 30, non sarebbe stato rinnovato. Uno di loro, Nicolas Winckler, violò gli accordi di riservatezza, e raccontò su Facebook quello che stava succedendo dentro all’emittente. I giornalisti non sono stati sostituiti, sono stati però assunti nuovi tecnici. Qualcuno crede che sia un tentativo di rottura con la linea precedente dettata da David Bobin, che ha lasciato l’emittente a metà agosto e che, secondo le voci raccolte dal quotidiano francese, è un “ottimo professionista ma incarnava una linea editoriale meno sistematicamente antifrancese”. Ma il canale deve anche fare i conti con gli ascolti, che non sono molto alti. In Francia sono aumentati durante la copertura delle manifestazioni dei gilet gialli, Rt ha seguito le proteste schierandosi dalla parte dei manifestanti, spesso violenti, che hanno sconvolto la Francia per mesi. Rt ha raccontato i gilet gialli come degli oppressi, e i gilet gialli hanno preso il canale come punto di riferimento. L’ultimo fine settimana del 2018, l’emittente pubblicò un video dei gilet gialli che dopo aver protestato davanti alla sede di France Tèlèvisions hanno raccontato la troupe dell’emittente russa e hanno salutato i giornalisti ringraziandoli: Merci Rt. Si è trasformata nella voce di una comunità, ma al di là dell’occasione in Francia non ha molto seguito e c’è chi crede che i licenziamenti siano dovuti anche a questioni di costi. L’impresa in Francia era partita in modo ambizioso. Ma il ritiro di Sputnik da Londra ed Edimburgo e i tagli a Parigi fanno venire il sospetto che il Cremlino stia forse pensando di rivedere le spese che impiega nelle propaganda all’estero. Potrebbe essere una  riorganizzazione delle risorse: nuovi interessi, nuove strategie. O mancanza di denaro.
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)